News
April 26 2023
Non è Bibbiano, certo. Ma questa è comunque la storia di una ragazzina di 13 anni collocata in una casa-famiglia per un anno e 13 giorni, una sofferenza che avrebbe potuto essere evitata. La vicenda, che in questo assomiglia invece a molte delle storie di Bibbiano, coinvolge una normalissima famiglia di immigrati: per l’esattezza un padre e una madre di origine albanese, che individueremo con le iniziali P e K, arrivati in Italia dal 2006 e residenti in un Comune della cintura milanese, dove fanno gli infermieri: lei in ospedale e lui in una residenza per anziani. Per anni, P e K hanno lavorato sodo e sono riusciti a comprare una casa dove abitano in sei. Con loro vivono la nonna materna e tre figlie piccole, tutte nate a Milano: Anna (il suo nome è di fantasia, come quelli che seguono), venuta alla luce nel 2007; Lucia, nel 2012; e Lorenza nel 2018.
I problemi iniziano nel 2019, quando Anna passa dalle elementari alle medie. Nella nuova scuola la ragazzina non riesce a farsi amici, i compagni la bullizzano, lei si fa solitaria e triste. Le difficoltà degenerano all’inizio del 2020, con il Covid e con l’inizio del lock-down da marzo. Anna inizia ad avere un’età difficile, 13 anni. Costretta a casa dalla pandemia, passa ore su internet e si affoga di social network. Come tanti altri adolescenti, è sempre più ribelle e insofferente alle regole.
Un giorno la madre torna a casa dal lavoro e scopre, assai spaventata, che la figlia s’è ferita alle braccia. Dopo litigi e molte discussioni, la ragazzina le rivela che a imporle quell’atto di autolesionismo è stato un gruppo che frequenta online. Preoccupatissimi, i genitori stringono i controlli su Anna, scoprono che si collega anche a siti pornografici e guarda immagini di suicidi. Allora le impediscono di chattare con estranei e di passare troppo tempo online. K è una donna severa, ma è anche intelligente, razionale: capisce che la figlia ha bisogno d’aiuto e si rivolge a una psicologa indicatale dalla scuola.
La situazione precipita il 25 maggio 2021, quando K torna a casa dal lavoro e verso le 18 - come da regole prestabilite - spegne il collegamento internet di Anna. La ragazzina, che mal sopporta la severità materna, reagisce malissimo: inveisce contro di lei, grida, la offende, la morde. Esasperata, K le dà uno schiaffo. Anna scappa in camera sua, e da lì chiama il 114, il numero di «Emergenza infanzia». La polizia arriva a casa, e agli agenti Anna racconta che la madre l’ha percossa, e che l’ha perfino minacciata con un coltello. La ragazza viene portata in ospedale, dove le viene diagnosticato «un disturbo del comportamento». I medici certificano una «piccola ecchimosi» su un ginocchio e una «cicatrice da autolesionismo» su un braccio.
Tanto basta perché i servizi sociali decidano il suo allontanamento immediato, una misura drastica che l’indomani viene confermata dal Tribunale dei minori di Milano, e così Anna viene collocata in una struttura protetta. I suoi genitori e l’avvocato, oggi, contestano con forza che la ragazzina non sia stata ascoltata dai magistrati minorili.
Si scoprirà poi che Anna, tra marzo e aprile, aveva già chiamato tre volte il numero Emergenza infanzia denunciando le sue presunte sofferenze: agli operatori Anna aveva descritto continue percosse della madre e della nonna materna, e aveva raccontato che le sevizie l’avevano indotta ad atti di autolesionismo, e addirittura a un tentativo di suicidio.
A nulla serve che P e K cerchino di affermare la loro versione dei fatti, del tutto diversa. Il 4 giugno 2021 il Tribunale dei minori sospende la loro responsabilità genitoriale non soltanto su Anna, ma anche sulle altre due figlie più piccole, che per il momento restano a casa. Sempre senza ascoltare Anna, il Tribunale conferma la sua collocazione nella comunità educativa. I giudici accusano P e K di «grave inadeguatezza genitoriale» e decidono che i loro rapporti con la ragazza dovranno svolgersi «con modalità protetta». In definitiva, P e K diventano un padre e una madre nel limbo: con la minaccia di più gravi provvedimenti, viene imposto loro di collaborare con i servizi sociali, e di accettare un complesso processo rieducativo.
In effetti, in quel momento il quadro a carico della coppia, sulla carta, pare molto negativo. E infatti contro di loro parte anche un’inchiesta penale, per il reato di maltrattamenti. Il pubblico ministero, però, indaga. E interroga Anna, che subito ridimensiona molto l’accaduto: la ragazzina riconosce che le accuse che ha lanciato sono in gran parte false, e in definitiva si assume la responsabilità del litigio tra lei e la madre. A quel punto, il primo dicembre 2021, il Pm chiede l’archiviazione delle indagini, attribuendo la problematicità della minore allo «scontro tra le due culture che sono venute a far parte della sua vita». Il magistrato aggiunge che «i discorsi e i comportamenti della ragazza miravano a far focalizzare su se stessa l’attenzione del mondo che la circondava», mentre i metodi educativi dei genitori, «per quanto rigidi», non sono «assolutamente sufficienti a sostenere un’accusa di maltrattamenti». Il giudice concorda in pieno con il pm: nella sua archiviazione, datata 30 luglio 2022, scrive che «il quadro indiziario originario si è di molto ridimensionato, fino a risolversi in una situazione di tensione e conflitto madre-figlia, peraltro in via di superamenti in base a quanto riferito dalla minore».
Tutto finito? Sì e no. Perché è vero che l’8 giugno 2022, cioè due mesi prima della conclusione del procedimento penale, il Tribunale dei minori restituisce Anna alla sua famiglia. Però lo fa, ancora una volta, senza ascoltarla. E insiste nella limitazione della potestà genitoriale di P e di K sulle loro tre figlie, condendola con un giudizio molto severo. I giudici scrivono che la coppia non è in grado di «fronteggiare il malessere psichico di Anna, e le sfide che l’adolescenza pone e porrà», e aggiungono che questa stessa presunta manchevolezza vale «a ruota, anche per le due altre figlie».
Quanto al monitoraggio svolto dai servizi sociali, anch’esso pare in buona misura contraddittorio. Perché una relazione condotta nel dicembre 2011 definisce la coppia collaborativa e attiva. K viene descritta come «sintonica e capace di comprendere la dimensione psicologica ed emotiva delle bambine, in quanto mostra di possedere sufficienti doti cognitive e relazionali», e la relazione aggiunge che «dai colloqui emergono discrete capacità genitoriali». Quanto al padre, i servizi sociali scrivono che «si presenta come una persona radicata positivamente su forti sentimenti di sensibilità e dovere».
Insomma, non sembra certo una situazione irrecuperabile. Tanto che nel gennaio 2022 e poi nel marzo di quello stesso anno sono gli stessi servizi sociali a suggerire al Tribunale dei minori il rientro a casa della ragazzina. Ma poi, nella relazione conclusiva del 20 marzo 2023, il tono cambia: gli assistenti sociali scrivono che la famiglia è poco collaborativa, chiusa, e non mostra alcuna fiducia. Sottolineano che Anna avrebbe ritrattato le sue accuse «probabilmente a fronte di pressioni psicologiche». E concludono che la ragazzina «oggi afferma che la colpa dell’accaduto è dei servizi sociali, che lei non avrebbe voluto andare in comunità, e che vi è stata portata senza che nessuno le abbia spiegato la motivazione».
K, oggi, è una madre felice e in parte rasserenata per il rientro a casa della figlia maggiore, ma è esasperata e resa inquieta dal perdurare della sospensione della potestà genitoriale, che considera una spada di Damocle. Da madre, è molto amara su quanto è accaduto alla figlia. Sostiene che in comunità è stata male, («ha anche preso il Covid, e non volevano farle il tampone») ed è peggiorata psicologicamente. K parla del «calvario», che la figlia avrebbe vissuto, a soli 13-14 anni, «in un ambiente non sereno», dove avrebbe «continuato negli atti di autolesionismo», compiuti stavolta «perché voleva tornare a casa». In quella comunità Anna avrebbe anche iniziato fumare, e compiuto qualche furtarello in compagnia degli altri ragazzi. K sostiene che un’assistente sociale le abbia detto che questo sarebbe potuto benissimo accadere anche a casa, e che un giudice minorile le abbia detto che si trattava soltanto di una «sperimentazione».
K oggi è molto preoccupata per la figlia, e soprattutto rifiuta con tutta se stessa l’accusa di essere una madre poco attenta alla psicologia di Anna e delle sue due sorelline, sostenuta da giudici e da assistenti sociali: «Secondo loro», risponde lei, «io sarei troppo rigida su quel che fa e magari anche su come si veste mia figlia, e quindi sicuramente in futuro sarò una madre troppo rigida anche con le due piccole. Ma che cosa ne sanno, giudici e assistenti sociali? E come possono prevedere il futuro? Io credo che quel che Anna e noi abbiamo sofferto sia stato terribilmente ingiusto, e profondamente sbagliato».
Il suo avvocato sottolinea, e non ha poi tutti i torti, che l’accusa di scarsa attenzione proviene in realtà da chi non ha mai ascoltato la piccola Anna. E ha presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.