Aumenti ed inflazione. Non solo briciole, per favore

Anche i banchieri, qualche volta, hanno un cuore. O forse no: non è cuore. È solo lucidità, minima intelligenza, comprensione della realtà. In ogni caso sono lieto di annunciare che il Grillo parlante (incredibile ma vero) si trova d’accordo con l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, l’uomo che guida il più grande istituto di credito italiano, principale datore di lavoro privato (quasi 100 mila dipendenti), un utile netto che continua a crescere (4,3 miliardi di euro nel 2022, toccherà i 7 miliardi di euro nel 2023). Che cosa ha detto Messina? Semplice: che una banca che realizza 7 miliardi di utili deve aumentare gli stipendi ai propri dipendenti. Sembrerebbe una dichiarazione normale, un po’ come dire che quando piove si esce con l’ombrello e se ci si butta in piscina è meglio indossare il costume da bagno. E invece non è così. Tanto è vero che dopo poche ore il suo collega Andrea Orcel, amministratore delegato di Unicredit, l’altro grande gruppo bancario italiano, ha subito tirato il freno a mano: beh, sì, insomma, vediamo, vedremo, ne discuteremo, deve intervenire l’Abi... Mille modi per dire no. O non ora.

Non voglio entrare nelle dinamiche sindacali delle banche, non mi interessano le discussioni sui rinnovi contrattuali, la richiesta di aumenti (435 euro al mese), le proposte aggiuntive, come quella della professoressa Elsa Fornero (proprio lei) che suggerisce l’ingresso dei lavoratori nei consigli d’amministrazione, e dunque forme di cogestione che in realtà non hanno mai avuto grande fortuna nel nostro Paese. Quello che mi interessa è che per la prima volta nel tempio sacro del denaro, dietro gli sportelli dei Paperoni bancari, viene posto un problema quanto mai drammatico e reale: quello degli stipendi. Che sono troppo bassi. E che devono aumentare quando aumentano i prezzi. Altrimenti, mentre le aziende si gonfiano di utili, i lavoratori diventano sempre più poveri. Sull’orlo della miseria.

La Banca centrale europea l’ha già ammesso in uno dei suoi ultimi report: l’attuale inflazione non è dovuta all’aumento dei salari, ma al cosiddetto «effetto ingordigia». Cioè i prezzi aumentano perché aumentano i guadagni delle aziende. Le banche ne sono un esempio: i loro utili, per altro, esplodono non perché sono state particolarmente efficaci, non perché hanno avuto una gestione brillante o innovativa, ma semplicemente perché sono aumentati i tassi d’interesse, così come le aziende energetiche negli ultimi tempi hanno riempito le casse non per i loro meriti ma per l’aumento del costo delle materie prime. E allora: è giusto che gli utili, maturati in questo modo, finiscano tutti nelle tasche di manager (superpremi) o azionisti (dividendi), mentre si continuano a tenere fermi gli stipendi dei lavoratori?

Anche perché se i tassi d’interesse (o il costo dell’energia) aumentano i lavoratori pagano di più. Pagano di più il mutuo per la casa, la rata dell’auto, quella dell’elettrodomestico, pagano di più le bollette. Se di fronte agli aumenti generalizzati (inflazione) i loro stipendi restano fermi, il potere d’acquisto diminuisce. Di fatto, i lavoratori sono più poveri. E allora confesso che tutte le volte che sento ripetere nelle solenni stanze, da Bankitalia in giù, la filastrocca del «non bisogna innescare la spirale prezzi-salari», mi si torcono le budella: tenere i salari bassi quando aumentano i prezzi significa scaricare sui lavoratori tutto il peso delle crisi. Perché non proviamo invece a disinnescare la spirale utili-prezzi?

Non tragga in inganno il fatto che si parla di dipendenti di banca. Quella che una volta era considerata un po’ l’aristocrazia dei lavoratori, il posto ambito e ben retribuito cui tutti aspiravano, non sta messa meglio degli altri. Oggi un cassiere appena assunto guadagna 1.100 euro come un operaio. Vale per chi sta dietro lo sportello quello che vale per tutti gli altri lavoratori italiani: negli ultimi trent’anni gli stipendi sono diminuiti mentre in tutto il resto d’Europa aumentavano, e così oggi l’ulteriore erosione causata dall’inflazione risulta letale. Soprattutto per chi sta nelle parti più basse della piramide impiegatizia, mentre ai piani alti si festeggia. Ricordo che Vittorio Valletta, non un pericoloso comunista, negli anni Cinquanta guadagnava 12 volte più di un suo operaio, oggi Carlos Tavares, a.d. di Stellantis, ex Fca, ex Fiat, prende 758 volte un suo operaio. I top manager delle aziende quotate prendono, in media, 670 volte più dei loro dipendenti. E fa un certo effetto che a opporsi, o almeno: a tirare il freno, sugli aumenti degli stipendi dei bancari sia l’amministratore delegato di Unicredit, Andrea Orcel che pur essendo già uno dei manager più pagati d’Italia si è appena visto aumentare la sua retribuzione da 7,5 milioni a quasi 10 milioni di euro l’anno (cioè da 20 mila a 27 mila euro al giorno). Per carità: se li sarà meritati tutti. Ma possibile che, poi, non restino nemmeno le briciole per i dipendenti?

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