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November 02 2024
Cinque bambini giocano nella carcassa di un’automobile senza ruote che fuoriesce dalla terra come un rugginoso fungo di lamiera, in uno spiazzo fra i casermoni. Tre sono dentro l’abitacolo, il quarto si dimena in sandali davanti al parabrezza. A stupire è il quinto, sul tetto, nella posa di frustare cavalli immaginari come il cocchiere d’una diligenza. È il Far West di Parigi, la metropoli delle poetiche periferie, capace di suscitare emozioni forti - fisarmonica, pastis e una rara partita di pétanque - anche lontano dall’Arco di Trionfo, dall’Opéra e dalla magia del Marais. È la Parigi anni Cinquanta di Robert Doisneau, genio della fotografia, che spiegava così i suoi scatti: «Quello che cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili».
C’è un libro che rappresenta ed enfatizza i buoni sentimenti della periferia, dove lavoro e povertà, rivoluzione industriale e lampi di socialismo diventavano spesso letteratura: La banlieue di Parigi (Edizioni Clichy), con le foto del mago e il testo dello scrittore Blaise Cendrars, un reportage che racconta com’era quel luogo dell’anima caratterizzato dalla zuppa di cavolo e dalla dignità, soprattutto dalla speranza di percorrere da sud i chilometri verso il centro con biglietto di sola andata.
Scrive Cendrars: «Alla fine salivo su un treno a caso della linea della Grande Ceinture che a seconda dell’ora, della direzione in cui andava, dei bivi, degli scambi e delle corrispondenze, mi lasciava alla Gare Saint-Lazare, alla Gare de Lyon, alla Gare de l’Est o addirittura alla Gare du Nord trapassando il centro, probabilmente per un ghiribizzo del capotreno che giocava a scacchi».
Da una banlieue all’altra senza mai scendere a Trocadéro per vedere la Tour Eiffel. Da Arcueil dove si possono ancora calpestare i ciottoli messi in fila dalle legioni romane durante l’invasione, fino a Saint Denis (allora fiero feudo operaio) dove oggi è tutta un’altra storia. Quella era la periferia delle scarpe rotte, dell’identità, della carne da fabbrica e della copia dell’Équipe aperta sul bancone del bistrò. Le canotte e i paltò rivoltati erano gli stessi di Quarto Oggiaro a Milano, di Pietralata a Roma. A Parigi c’era una specialità in più, sfuggita all’obiettivo di Doisneau. Racconta Cendrars: «Sebbene il tragitto attraverso i sotterranei fosse lungo, da avenue Montaigne dove abitavo mi infilavo nel tombino del grande collettore fognario insieme con i miei amici fognaioli per riemergere nelle cave di Montrouge, alla Porte d’Orléans, uscendo dalle catacombe senza tempo per inoltrarmi nel sentiero tortuoso che attraversa i terreni in abbandono cari agli accampamenti gitani».
Roba da intellettuali a caccia di emozioni e di panorami di servizio. Ed ecco le foto del mito: il treno degli operai attraverso le ciminiere, il picnic fra i rovi della famiglia comunque felice, gli sposi che sfilano sull’argine del misero canale mentre lì a fianco un ristoratore annuncia su troppi cartelli la bontà della sua frittura. E poi il padiglione delle danze, i tuffi nella Senna invasa da centinaia di bagnanti dentro la sudata comèdie humaine che neppure Doisneau riesce a rendere gentile. Attorno, sempre e comunque, mattoni e cemento di un’edilizia degradata, in antitesi con i palazzi della città imperiale, inarrivabili laggiù all’orizzonte. Con gli stucchi e gli abbaini e i cornicioni dove Javert nei Miserabili continua a chiedere alle stelle il permesso di arrestare Jean Valijean.
Ciò che rende potenti quelle immagini e quel libro è la contraddizione con la periferia di oggi, popolata da un’umanità che non crede nel riscatto, e alla rassegnazione ha aggiunto la violenza. Altro che gentilezza. Anche oggi da qualche parte fra Pantin e Aubervillers (a Nanterre no, lì ci sono le ville dei professionisti guardate a vista dal Tribunale), possiamo facilmente immaginare una Toyota carbonizzata e senza ruote, con la scritta «Fuck!» tracciata con la vernice sulla portiera, dove una baby gang gioca alla guerra senza un sorriso. Si chiama ancora periferia, ma un giorno Nicolas Sarkozy la ribattezzò racaille, ovvero «feccia». Al tempo di Cendrars il partito comunista distribuiva innocui volantini e la colonna sonora era un disco di Yves Montand, ora il fremito sociale riesce a trasformare il disagio nel boato di una polveriera che esplode.
La banlieue ha cambiato volto e ha perso l’anima. Adesso è un luogo oscuro, una terra di nessuno dove la polizia non entra. Provate ad andare di notte in bicicletta a Belleville, a neanche sei chilometri dal centro, e avrete spiacevoli sorprese. È la cronaca a dominare. La moda preferita di questi anni è l’assalto ai gendarmi. A turno, polizia, vigili del fuoco, ambulanze ricevono chiamate d’emergenza e, una volta arrivati sul posto, trovano ad attenderli bande organizzate, pronte a scatenare contro di loro la guerriglia urbana. È qualcosa di assurdo, preordinato e coordinato: gli scontri vengono filmati e postati sui social, dove una giuria criminale stabilisce un premio per il miglior agguato della settimana.
Oltre la Senna, dove Doisneau immortalava fidanzati che sognavano il posto fisso, per attirare le forze dell’ordine è stato appiccato il fuoco a una scuola materna; poi i più violenti hanno teso una trappola ai soccorsi. L’identikit è uguale per tutti: disoccupati senza speranza e senza voglia, terza generazione di famiglie immigrate, ragazzi dediti allo spaccio di droga, manovalanza della malavita di quartiere. Sono i nuovi padroni e riproducono ruggiti da foresta suburbana americana. Per fermarli, anche le ambulanze hanno la scorta e i poliziotti usano proiettili di gomma e granate anti accerchiamento per non essere prima sopraffatti e poi derisi online. Non ha più senso chiamarle banlieue per sentire sul palato il sapore di baguette imburrata. È un altro mondo. L’incubatore sociale del radicalismo, monitorato e temuto nell’estate delle Olimpiadi, mentre la sindaca Anne Hidalgo si immergeva nella Senna colibatterica. L’estate scorsa l’ex ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, ha dichiarato che «i servizi d’intelligence seguono più di mille minori con schede attive per radicalizzazione di stampo islamista».
Gli allarmi sono arrivati dalle inchieste giudiziarie, con il peso dei numeri e delle parole: «Negli ultimi mesi almeno dieci minorenni sono stati iscritti nel registro degli indagati per progetti di azioni violente a carattere terroristico», ha sottolineato il procuratore nazionale antiterrorismo Jean-François Richard. Con l’ambasciata, i consolati israeliani e le sinagoghe come obiettivi sensibili. È con queste periferie di Parigi che sociologia, letteratura, cinema e fotografia si devono confrontare. Luoghi in penombra dove anche le scuole diventano centri di reclutamento. «E in alcuni casi», ha spiegato l’ex premier Gabriel Attal «non combattiamo più ad armi pari». Per i francesi, che consideravano gli istituti scolastici delle periferie il vero presidio di legalità e di speranza per il futuro, scoprirlo è stato uno shock. Laggiù nulla è più romantico tranne la luna quando è piena. Ma nessuno la guarda, c’è più attrazione negli smartphone, dove gli «influencer del terrore» indottrinano e reclutano i futuri soldati delle rivolte.
C’è qualcosa di antropologico in questo libro. Mentre il Far West di Parigi sembra quello di Baltimora o Molenbeek, gli scatti di Doisneau e il lirismo di Cendrars ci parlano di un orizzonte perduto. Dove bambini con le calze bianche saltano i fossi, per incollare i nasi davanti alle vetrine a osservare giocattoli antichi.