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Benito, il duce qualunque

«Bussano».

L’italiano medio degli anni Trenta va ad aprire e si trova davanti Benito, il dittatore della porta accanto. Ma anche il figlio del fabbro di Dovia, il giovane socialista che voleva emigrare a New York, l’agit-prop interventista portato via dalla polizia, il bersagliere che mandava dal fronte lettere corredate da fiori di montagna, il vecchio sconfitto dalla Storia sorretto da Claretta Petacci davanti al cancello di Villa Belmonte. «È semplicemente la storia di un uomo per niente semplice», spiega Giordano Bruno Guerri, autore del libro Benito (Rizzoli), già bestseller a due settimane dall’uscita. «Un uomo che, in bene e in male, gli italiani chiamavano per nome».

Giordano Bruno Guerri, perché ha puntato sul nome di battesimo per il titolo?

Perché spiega che questa è la vicenda di un uomo, con pregi e difetti. Mussolini era un’altra cosa, Duce un’altra ancora. Tutti e due affrontati e giudicati dalla Storia. Invece per capire quella epoca bisogna partire dalla figura vicina, famigliare, detestata o amata, che gli italiani davanti al focolare chiamavano Benito. Per evocarlo come per maledirlo.

Lei teorizza che in Italia più che di fascismo si dovrebbe parlare di «mussolinismo». Spieghi.

Gli italiani erano mussoliniani. Non si riconoscevano nel fascismo, un’ideologica politica quasi religiosa ben rappresentata dal pensiero di Giovanni Gentile. Ma avevano il culto dell’uomo forte, pronto a sfidare il mondo, nel quale identificarsi. E quell’uomo era Benito.

Però l’Italia in camicia nera fu una realtà in tutti i campi.

Il fascismo aveva tre capisaldi. 1) «Lo Stato è tutto, l’individuo fuori dallo Stato non è niente». L’italiano individualista e ribelle non si identificava certo in questo dogma. 2) «La guerra è un dovere sacro della patria». Ecco, anche qui lasciamo perdere. 3) «L’orgoglio della razza risale agli antichi romani». Figuriamoci, men che meno. La verità è che l’Italia del ventennio era mussoliniana e non fascista. Forse neppure il duce lo era.

Vabbè, non esageriamo.

Certo che no, perché Benito era di formazione socialista, era populista. Tutto ciò venne da lui deformato per conquistare il potere. Lo stesso avviene oggi per quelli che vengono definiti fascisti o neofascisti: nessuno di loro rientra nei tre dogmi, quindi definirli tali è fuorviante.

E allora cosa resta dopo il setaccio?

Il culto dell’uomo forte, il capo al quale trasferisci i tuoi problemi nella speranza che li risolva. Qualcuno nel quale è facile identificarsi. Ed è accaduto in piccolo anche per Bettino Craxi, Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, perfino Mario Draghi, oggi Giorgia Meloni.

Perché proprio adesso un libro su Mussolini?

Studio il fascismo da 50 anni. Da allora ho in canna e mi chiedono un libro su Mussolini. Non l’avevo mai scritto perché considero insuperabile l’opera di Renzo De Felice. Lì dentro c’è già tutto. Ma viviamo un periodo strano, in cui la vulgata fonde la destra con il fascismo; serviva un punto di chiarezza, con l’obiettivo di mettere dei distinguo a uso del lettore di oggi.

Sottotitolo: «Storia di un italiano». La quintessenza della normalità. Come se invece del telescopio, lo strumento per metterlo a fuoco fosse il microscopio.

Qui mi interessava studiare l’uomo. Quel sottotitolo è volutamente banale, già usato per Alberto Sordi, per Tazio Nuvolari. Benito aveva molte delle caratteristiche del popolo italiano, anche se nessuno vuole ricordarlo.

Anzi stanno piovendo critiche social. A sinistra c’è indignazione.

Qualche giorno fa vedevo una pagina su X dove mi davano del cretino per avere scritto le cose che adesso dico a Panorama. Mi pare una conseguenza inevitabile e non ci faccio neppure caso. Invece ho ricevuto un bel segnale da un articolo del Sole 24 Ore firmato da uno storico importante, Angelo Varni, docente all’Università di Bologna. Lui mi dà ragione. È la prima reazione della storiografia ufficiale ed è priva di sputazzi. Mi pare importante. Pure in tv vedo volti esterrefatti e mi diverto.

Ci faccia un esempio.

Ero da Lilli Gruber. Con Massimo Giannini e Serena Bortone basiti quando ho detto che, come non si può parlare di fascisti oggi ma al massimo di neofascisti, non si può neppure parlare di antifascisti, se non di neoantifascisti. Mi guardavano come se avessi rubato in chiesa.

Perché anche l’antifascismo sarebbe fuori dal tempo?

Perché gli antifascisti di allora rischiavano la pelle mentre quelli di oggi non rischiano proprio niente. Anzi si appuntano una facile medaglia. Detto questo, io allora sarei stato un antifascista vero perché sono un libertario. Essere un libertario in definitiva è più che essere antifascista. Perché l'antifa è sempre o filocomunista o ultrareazionario. Il libertario è custode di tutte le libertà.

Giordano Bruno Guerri, perché 80 anni dopo non si può ancora raccontare il fascismo senza cadere nell’ideologia?

Una premessa: la situazione è molto migliorata. Il problema origina dal fatto che per 30 anni dalla fine della guerra non si è mai studiato il fascismo con intento scientifico. Fino al libro di De Felice e al mio su Bottai, entrambi del 1976, quello è stato un argomento trattato in modo distorto. I 30 anni di elaborazione, che si sono tenuti in Germania, in Francia, noi non li abbiamo vissuti e siamo rimasti indietro. Ci sono esempi concreti.

Ce li snoccioli, per favore.

L’uscita del volume di De Felice creò scandalo e basta. Ma non fu l’unico. Ricordo l’indignazione per la mostra sugli anni Trenta a Milano, voluta tra l’altro da un sindaco socialista come Carlo Tognoli. Ecco, siamo ancora 30 anni indietro sulla comprensione, l’elaborazione e il superamento della Storia. Ma attenzione, la stessa destra è 30 anni indietro.

Cosa pensa della voluminosa saga M di Antonio Scurati?

Penso che la letteratura sia una bella cosa. L’operazione Scurati è legittima e per le prime 200 pagine perfino apprezzabile. Poi basta. Allora hanno più senso Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli, I Buddenbrook di Thomas Mann. In M il gioco diventa scoperto, alla fine è un’opera di narrativa a tesi travestita da saggio storico.

Quando gli italiani smisero di far entrare Benito nelle loro case?

Nel 1938 ma non per le leggi razziali, bensì perché lui dichiarò guerra alla borghesia che lo aveva sostenuto. Rinnegò quei ceti per completare la svolta autoritaria. Ed ecco le leggi razziali, il passo romano, l’uso del «voi». Autentiche vessazioni. Tra l’altro nel periodo in cui gli italiani erano felici perché avevano conquistato l’impero e dicevano: Ottimo, ma adesso basta. E invece arrivò il peggio.

Come si va oltre la storia spiegata da chiunque su YouTube?

Scrivendo un buon libro. Non vorrei cadere nell’autocompiacimento, ma alcuni miei libri sono ancora vivi. Quello su Bottai ha 48 anni e potrebbe essere considerato un Matusalemme, invece lo trovi negli Oscar Mondadori.

C’è chi la accusa di revisionismo storico.

Non la considero un’accusa ma un complimento. Il revisionismo è la base di tutte le scienze. Studiosi di matematica, ingegneria, medicina non fanno che rivedere traguardi dati per definitivi e andare avanti. Senza il revisionismo dei medici continueremmo a essere operati dai barbieri.

Quindi i punti fermi non esistono?

Nella Storia, pensare di aver raggiunto verità immutabili su un argomento è assurdo. Ci sono sempre nuovi documenti, interpretazioni in base a studi più moderni. Oggi anche il giudizio sul Risorgimento è diverso da quello dell’epoca liberale-pre fascista.

Facciamola, la domanda del secolo: il fascismo può tornare?

Un’ipotesi decisamente ridicola, quel fascismo non è pensabile. È più preoccupante una new entry non basata sui manganelli ma sul controllo delle persone con gli algoritmi e il soft power di Internet. Per questo bisognerà affrontare l’Intelligenza artificiale in modo intelligente. Ci prendiamo il torcicollo pensando che il pericolo arrivi dal passato, ma il pericolo arriva dal presente.

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