Berlinguer, Andreotti, Craxi: il santo, il diavolo e il brigante

Ma è possibile che della storia della Repubblica italiana, l’unico santo che si salvi e sia venerato ancora oggi sia Enrico Berlinguer? Sbrigato l’ossequio ad Alcide De Gasperi, e ad Aldo Moro assassinato, l’unico leader politico a cui si dedicano saggi e agiografie, film in uscita, documentari ed elegie è il segretario del Pci, che non è mai stato al governo del Paese e ha guidato i comunisti per dodici anni.

Spariscono tutti, Andreotti e Fanfani, Craxi e Nenni, Saragat e Togliatti, La Malfa e Pannella, Spadolini e Malagodi, i capi dello stato e del governo. Al più le menti più libere confrontano Berlinguer e Giorgio Almirante, come Antonio Padellaro che rese onore ai due opposti capi dell’opposizione e ai loro rapporti furtivi. Ma da Berlinguer ti voglio bene, lui vivente, di Giuseppe Bertolucci al famoso omaggio di Roberto Benigni, dal docufilm Quando c’era Berlinguer veltroniano di dieci anni fa, alle biografie osannanti, di cui l’ultima di Marcello Sorgi San Berlinguer; e poi i numerosi suoi scritti, peraltro modesti, ripubblicati in questi anni, e ora Prima della fine di Samuele Rossi, mentre arriva al festival di Roma e nelle sale La grande ambizione di Andrea Segre, con Berlinguer interpretato da Elio Germano.

A ridurre la storia della Repubblica italiana agli stereotipi correnti, potremmo così sintetizzare gli ultimi decenni della Prima repubblica: il santo, il diavolo e il brigante. Il santo, naturalmente, è Berlinguer; il diavolo resta Giulio Andreotti, Belzebù già in vita, mai riscattato post mortem, anche di recente sono riemerse le accuse di mafia in relazione all’assassinio del Generale Della Chiesa. E il brigante resta Ghino di Tacco, al secolo Bettino Craxi, morto in esilio ad Hammamet e considerato ancora - nonostante un film che gli aveva restituito un po’ di dignità e memoria - il Delinquente Politico per Eccellenza, il Bersaglio più noto e più grosso di Mani Pulite, detto anche Il Cinghialone da Vittorio Feltri (che perlomeno dopo si pentì). Possiamo dire invece che fu una fortuna per il nostro Paese se al governo, dei tre, non ci andò mai proprio Berlinguer? Andreotti, tra lati oscuri e misteri obliqui, fu uno dei riferimenti basilari su cui si resse per anni la repubblica. E Craxi fu un grande leader e un gran premier, portò il socialismo nella realtà di oggi, avversò la demagogia sindacale, riscoprì la nazione e la storia risorgimentale e portò l’Italia a primati internazionali impensati.

Possiamo dire che se avesse vinto Berlinguer, avremmo avuto il comunismo al potere, con tutti i fallimenti che ha comportato in ogni parte del mondo? Berlinguer non compì alcuno strappo da quella ideologia. Il suo tormentato rapporto con Mosca alternò adesioni a tentativi di graduale e timoroso affrancamento, restando pur sempre dentro la tradizione comunista e sentendosi comunista fino al midollo e fino alla fine. Anzi la sua popolarità, con la sua morte prematura sul campo, la si deve proprio al fatto che era visto come il compagno comunista. Vogliamo dimenticare la sua critica radicale al capitalismo, la sua convinzione che l’austerità sarebbe stata l’occasione per fuoruscire dal sistema occidentale, tentando una nuova via del socialismo? Vogliamo dire che Berlinguer non sconfessò mai la tradizione leninista e in Italia il gramscismo e il togliattismo? Vogliamo dire che la sua sinistra guardava ancora al passato, si baloccava con l’eurocomunismo e condannava il socialismo craxiano che si apriva all’Europa, al Mercato, all’Occidente e all’identità nazionale? Vogliamo dire che la questione morale che sollevò dall’opposizione l’aveva sollevata prima di lui da destra Almirante, denunciando la corruzione politica e la spartizione del potere? Vogliamo dire che Berlinguer non lasciò grandi tracce della sua visione, ma fu un diligente primo funzionario del Partito; non ebbe la lucidità strategica e la statura politica del pur cinico Palmiro Togliatti, né l’efficacia oratoria di Giancarlo Pajetta, il realismo storico di Giorgio Amendola, l’impronta profetica di Pietro Ingrao? Non fu una grande intelligenza politica né un grande leader ma un solerte dirigente di Partito, che non andò mai oltre il suo Partito e la sua ideologia.

Berlinguer fu una persona onesta, per bene, misurata e sobria, che credeva nelle sue idee, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo e un gigante della Repubblica italiana? A «salvarlo», per così dire, fu l’assassinio di Moro che fece saltare la svolta consociativa verso cui stava andando l’Italia del compromesso storico Dc-Pci. Ci volle poi la caduta del muro di Berlino e dell’impero sovietico per cancellare il nome del Pci e il riferimento al comunismo; ma Berlinguer era già morto da anni. Non è un caso che i due comunisti di cui ancora si celebra la memoria sono i due sardi Antonio Gramsci ed Enrico Berlinguer, che ebbero la fortuna di non andare al potere. Quando era in carcere, Gramsci teorizzava un regime ben più totalitario di quello che lo aveva messo in galera, e se non si riconosceva nello stalinismo, si considerava ancora pienamente nella scia di Lenin. Se Gramsci e poi Berlinguer fossero andati al potere avremmo realmente capito come intendevano governare l’Italia; altro che liberali e democratici, come testimoniano le loro idee e la loro coerenza a cui rendiamo onore, pur essendo agli antipodi. E invece, il teatro della Prima repubblica funziona con tre maschere: A. Il demonio, B. Il santo e C. Il brigante. Ma la storia è un’altra cosa.

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