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November 15 2024
Quarant’anni dopo è giusto chiedersi, come Alessandro Manzoni ne Il cinque maggio: «Fu vera gloria?». La telefonata a chi scrive arrivò verso le 11 di sera, il 7 giugno 1984: «Vai a Padova, Berlinguer è ricoverato in ospedale, mettiti dietro la porta e segna tutto, poi passa le notizie a Miriam. Sei a Bologna, sei il più vicino, ma scrive Miriam». Miriam intesa come Mafai, compagna di Gian Carlo Pajetta il più comunista dei comunisti dopo Pietro Secchia il capo dell’organizzazione del Pci e del parapartito sempre pronto all’insurrezione armata. Fu in quell’ambito che Alberto Franceschini - uno dei «compagni che sbagliano» con in tasca la tessera della Federazione giovanile comunista di cui Enrico Berlinguer era stato segretario - ebbe l’idea di fondare le Brigate Rosse e trovò le prime armi dai partigiani di Reggio Emilia, difensori della «resistenza tradita».
L’ordine di non muoversi dall’ospedale arrivava da Franco Magagnini, il leggendario capo dell’Ufficio centrale del giornale ed era indiscutibile; la macchina di Repubblica marciava in ansioso massimo regime. Su Berlinguer c’era una privativa: potevamo scrivere di tutto e di tutti, tranne che di lui. Santo subito?
In vita, e più ancora in morte, che avvenne dopo quattro giorni con il taccuino che si gonfiava dell’andirivieni di dirigenti comunisti - ma non di Bettino Craxi, segretario del Psi, che fu cacciato dall’ospedale - di bollettini medici sempre più gravi e diafani mentre la prima pagina scandiva giorno per giorno l’epopea di un’agonia. Il segretario del più grande (e ambiguo) partito comunista d’Occidente spirava l’11 giugno e Sandro Pertini, il presidente della Repubblica, trasportò la salma sul suo aereo: «Me lo riporto a casa» disse. I funerali - come è scontato nella liturgia comunista - furono un evento di massa. Ma fu vera gloria?
È lecito chiederselo oggi che un film - niente male dicono i critici - La grande ambizione firmato da Andrea Segre è celebrato come un oracolo alla Settimana del cinema di Roma tanto da valere a Elio Germano, l’interprete principale, l’immediato premio Vittorio Gassman. Il «santino» di Enrico Berlinguer lo ha già distribuito Elly Schlein che ha voluto la foto del segretario comunista come immagine della tessera del Pd per il 2024. Walter Veltroni, che il Pd lo ha «creato», aveva rivendicato: «Non sono mai stato ideologicamente comunista». Allora cos’è il Pd? È il partito del berlinguerismo realizzato? Del compromesso (anti)storico?
Se è così sulla politica di Enrico Berlinguer più che di «grande ambizione» sarebbe lecito parlare di grande rimozione. Perché mai una volta in vita sua ebbe a condannare il comunismo. Ha preso, è vero, tardive distanze dal regime sovietico, ma mai dal comunismo. Per capire l’ambiguità di Berlinguer bisogna rifarsi a un documento di quell’Europa che la sinistra gemmazione del Pci - fa fede l’attuale tessera del Pd - ritiene il proprio sancta sanctorum.
Il 19 settembre del 2019 il Parlamento di Strasburgo ha approvato la risoluzione «sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa». Al punto 3 si legge: «Il Parlamento europeo ricorda che i regimi nazisti e comunisti hanno commesso omicidi di massa, genocidi e deportazioni, causando, nel corso del XX secolo, perdite di vite umane e di libertà di una portata inaudita nella storia dell’umanità». Dunque nazisti e comunisti pari sono. Al punto 15 si scrive: «Sostiene che la Russia rimane la più grande vittima del totalitarismo comunista...». Ebbene Berlinguer mai ha riconosciuto i crimini dello stalinismo. Nel 1956, mentre i carri armati sovietici schiacciano i manifestanti in piazza a Budapest e Giorgio Napolitano, che diverrà presidente della Repubblica, inneggia ai tank dell’Urss portatori di pace - si pentirà solo nel 2005 del giudizio - Berlinguer da segretario della Fgci al Comitato centrale liquida il dissenso interno contro l’Urss come «incertezze che si manifestano nelle nostre file», Enrico il giovane che diviene il delfino di Palmiro Togliatti ne eredita amplificandole tutte le ambiguità.
Maurizio Caprara - già portavoce al Quirinale di Napolitano - ha rivelato sul Corriere della Sera che nell’archivio della Fondazione Gramsci c’è un appunto di Berlinguer che l’11 ottobre del 1949 scrive: «Temi da trattare al congresso: questione della bomba atomica e necessità dell’abbandono della politica atlantica. Questione dell’infanzia: sottrarre l’infanzia all’educazione corruttrice dei preti». Quando si sostiene che cercò «la terza via» con l’eurocomunismo si stende un velo sull’omissione gigantesca che il segretario del Pci ha compiuto sui crimini del comunismo e sui troppi tardivi pentimenti dimezzati. Giova a proposito rileggere ciò che disse della repressione a Varsavia - siamo nel 1981 - alla Rai: «Ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società che si sono create nell’Est europeo è venuta esaurendosi. Noi pensiamo che gli insegnamenti fondamentali che ci ha trasmesso prima di tutto Marx e alcune delle lezioni di Lenin conservino una loro validità».
Aggiungerà che tra socialismo realizzato e socialdemocrazia serve una «terza via». È lo stesso Berlinguer che è andato ai funerali di Leonid Breznev, che partecipa ai 60 anni della Rivoluzione d’ottobre a Mosca, che prima lancia il «compromesso storico», ma davanti al rapimento di Aldo Moro è intransigente e poi nel 1980, ucciso dalle Brigate Rosse il leader storico della Dc, si pente e vuole l’alternativa democratica che doveva escludere la Dc dal governo. Nel 1976, in un’intervista a Giampaolo Pansa, il segretario dichiara di non volere più l’uscita dell’Italia dalla Nato, che pure critica, ma nel 1981 dopo che l’Urss ha piazzato nella Germania Est gli SS20, missili atomici puntati sull’Europa, su preciso ordine di Mosca si oppone all’istallazione a Comiso di una base difensiva Nato. Non si accorge che così facendo colloca l’Italia fuori dallo schema occidentale.
Nel 1981, dando prova di moralismo oscurantista, in un dialogo con Eugenio Scalfari afferma: «Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? I fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela». La diversità positiva del Pci consiste nel continuare a prendere soldi dal Pcus, dai dittatori che governano un Paese nemico dell’Italia. Che il legame con l’Unione Sovietica non si fosse mai interrotto lo dimostra che nel febbraio 1984 Berlinguer va a Mosca per partecipare ai funerali del segretario generale del Pcus Jurij Andropov. Confidò a Massimo D’Alema: «La prima legge generale del socialismo reale: i dirigenti mentono, sempre, anche quando non è necessario». Lezione che Berlinguer aveva mandato a memoria: pur consapevole della doppiezza sovietica e dispensando patenti di moralità non recise mai del tutto il cordone ombelicale con Mosca, né mai condannò i crimini di leninismo e stalinismo. In perenne ansia da conquista del potere anche sul piano economico Berlinguer cercò una terza via impossibile, distorcendo John Maynard Keynes e inventando la politica, esplicitata dai suoi economisti che l’hanno ereditata e applicata, del «tassa e spendi». Il 26 settembre del 1980 davanti ai cancelli della Fiat arringò gli operai che bloccavano le fabbriche dicendo che il Pci li avrebbe appoggiati anche se le avessero occupate. Una lezione che dev’essere sfuggita a Maurizio Landini, segretario della Cgil, che oggi è assai morbido con i vertici Stellantis. La smentita a Berlinguer arrivò dalla «marcia dei quarantamila».
Nessuno però che si sia chiesto quanto il berlinguerismo abbia frenato lo sviluppo economico dell’Italia. Perché all’aggettivo «comunista» Enrico Berlinguer non rinunciò mai. Chissà se avrebbe votato la risoluzione 2819 di Strasburgo. Forse si sarebbe limitato a una grande rimozione.