Televisione
December 28 2023
Avrebbe potuto essere tutto: adrenalina, epica, un altro racconto al cardiopalma, con tanta azione da stroncare sul nascere ogni eventuale riflessione etica. Invece, Berlino si è rivelata altro: una grande commedia romantica, legata alla Casa di Carta dal solo nome del suo protagonista. Lo serie televisiva, che Netflix ha corso per rilasciare online venerdì 29 dicembre, è stata annunciata come l’epopea di Berlino, un excursus sul ladro gentiluomo della Casa di Carta, le sue origini, gli esordi. Ma poco di quel che sembrava lecito aspettarsi è stato visto. Berlino, nei suoi otto episodi, ha preso il via in quel che sui banchi di scuola insegnano ad indicare come «in medias res». Nel mezzo delle cose, del caos, di una Parigi brulicante di vita e goliardia. Berlino, lo stesso volto elegante del Berlino della Casa di Carta, ci è arrivato insieme ad una banda, la sua terza. Com’è stato per la serie madre, l’ha composta scegliendo fra gli ultimi, gli emarginati. Ha selezionato i più furbi e i più intelligenti. Hacker, ingegneri, ragazzi e ragazze protette da identità farlocche, nell’impossibilità di sapere gli uni con gli altri chi si celi sotto gli pseudonimi.
Damian, Roi, Cameron, Bruce, Keila stanno a Berlino, dunque, come Tokyo e Nairobi, come Denver sono stati alla Casa di Carta. Nessuna deroga, nessuna differenza. Berlino ha mantenuto invariate le regole del gioco: la banda, la mente, il piano magnifico, un furto così ben articolato da suscitare in chiunque non lo abbia pensato di testa propria una sorta di invidia, come se ciascuno spettatore in fondo sapesse di potersi fare un po’ ladro, un po’ criminale. Berlino è stata costruita sull’ossatura della Casa di Carta, ma diversamente dalla Casa di Carta non ha voluto raccontarsi con lo stesso ritmo. A Parigi, dunque, l’aria è diversa da quella che si è respirato a Madrid, meno tesa. Berlino, con gli stessi dolcevita e i pantaloni sartoriali della serie madre, è più giovane. Un estata votato al bello, dove «bello» allo stato di potenza è tutto. Berlino lo cerca sulla tavola, tra formaggi e vini francesi, nelle donne che gli passano accanto, in sogni d’amore che rasentano la fantasia, nella professione di ladro. Lo cerca per cercarlo, senza scopo altro all’infuori di quello che è stato di alcuni filosofi. Vuole vivere di bellezza, fare della propria vita un’opera d’arte, ed è questa volontà a permeare ogni cosa lo riguardi, ivi compreso il mestiere.
Quando Berlino, insieme alla sua terza banda, ha scelto di svaligiare la casa d’aste Chez Vientot, rubando una partita di gioielli del valore di quarantaquattro milioni di euro, non lo ha fatto per avidità o cupidigia. Lo ha fatto perché il colpo, spettacolare come e più dei precedenti, senza ostaggi né negoziati con la polizia, potesse scrivere la storia dell’arte criminale: una magia, un trucco alla maniera di Houdini, dove tutto è fatto sotto il naso di chi dovrebbe impedirlo. Quasi, lo ha fatto con leggerezza, ed è questa leggerezza che muove ogni singolo aspetto della serie.
Berlino, spin-off attesissimo della Casa di Carta, è una commedia come tante, dove il furto – di nuovo, magnifico – è utilizzato come pretesto per indugiare sulle dinamiche interne alla banda, sulle debolezze straordinariamente umane dei suoi componenti. Diversi, ma accomunati da uno stesso bisogno d’amore. Accanto a Berlino, capitolato ai piedi di Camille, moglie del direttore della casa d’aste, ci sono Cameron e Roi, le storie di Keila e Bruce, di Damian e sua moglie. E tutto scorre senza riguardo al piano o alla ricchezza, scorre in nome dell’amore capace di vincere tutto. L’adrenalina manca, l’azione è soffocata dalla reazione dei ladri ai fatti della propria vita personale. La velocità della Casa di Carta non c’è. Ma la commedia, come spesso accade per il genere, va da sé, piacevole e meno esposta alle critiche di quanto non sia stata la serie dalla quale ha avuto origine.