Politica
June 26 2023
Ma chi comanda oggi in Italia? Il governo di Silvio Berlusconi? Il pool di Mani pulite guidato da Francesco Saverio Borrelli? Il Quirinale di Oscar Luigi Scalfaro? Perché è questo dilemma la vera causa della guerra esplosa tra i palazzi-simbolo della vita pubblica italiana. Uno scontro di potere, certo. Ma soprattutto una resa dei conti per conquistare o mantenere di fronte all’ opinione pubblica la legittimazione a guidare il Paese nel passaggio tra il vecchio e il nuovo sistema politico. Così, è difficile pensare che tutto si concluda con la controffensiva decisa giovedì 6 ottobre, all’ unanimità, dal Consiglio dei ministri: invio a Scalfaro e a Vittorio Sgroj, procuratore generale della Cassazione e titolare dell’ azione disciplinare nel Consiglio superiore della magistratura, di una lettera-esposto contro Borrelli.
Un’iniziativa senza precedenti a carico del procuratore capo di Milano: accusato, per la sua intervista al Corriere della sera densa, oltre che di denunce esplicite, di messaggi e pesanti allusioni su Berlusconi e sul ministro della Giustizia Alfredo Biondi, di aver violato l’ articolo 289 del codice penale che tutela il corretto funzionamento delle istituzioni. Una decisione rimasta in bilico fino all’ ultimo anche a causa della freddezza di Scalfaro. Ventiquattr’ ore prima, ricevendo un indignato Berlusconi e i suoi vice Roberto Maroni e Giuseppe Tatarella, il presidente della Repubblica si era mostrato prudente: «Se mi inviate l’ esposto sarà mio dovere trasmetterlo al Csm. Purché sia scritto in termini accettabili». E aveva suggerito una soluzione diversa: una mediazione «di garanzia», come altre volte. Una serie di telefonate a Borrelli, al procuratore generale di Milano Giulio Catelani, a Sgroj. Risultato: smentita, da parte del capo del pool milanese, di iniziative giudiziarie «oggi e domani» contro Berlusconi.
Ma soprattutto, per Scalfaro, la puntigliosa conferma del ruolo di supercontrollore e grande regista istituzionale. Ancora alle prime ore del mattino del 6 ottobre, Berlusconi, davanti a una tazza di tè nel suo appartamento di via dell’ Anima, discuteva con i propri collaboratori del dilemma che fin dalla nascita contraddistingue e grava come un’ ombra sul governo. Lasciar perdere la linea dura in cambio di una tregua, magari effimera, e porsi nuovamente sotto la tutela di Scalfaro? Oppure affermare in campo aperto, ma con grandi rischi, il proprio diritto alla leadership, invitando gli altri due poteri, Quirinale e magistratura, a rientrare nei ranghi? Per questa seconda soluzione propendevano i falchi tradizionali, come Giuliano Ferrara e il ministro della Difesa Cesare Previti. «In questa guerra non si fanno prigionieri» era il loro slogan. Per la prima, come da copione, il sottosegretario Gianni Letta, ma anche gli alleati della maggioranza, da Gianfranco Fini a Umberto Bossi.
Con qualche significativa differenza, però: il leader di Alleanza nazionale, per esempio, se suggeriva di raffreddare la tensione con i magistrati, si preoccupava di distinguere tra Borrelli e Antonio Di Pietro. E non era disposto ad archiviare l’ altra partita in sospeso, quella con il Quirinale. E Berlusconi? Istintivamente, era per la linea dura. «Non voglio un governo di sostituti procuratori» ripeteva. «Non posso accettare questo continuo ricatto». E manifestava anche lui un’ insofferenza crescente per «lo stretto marcamento» al quale il presidente della Repubblica sottopone l’ esecutivo: «Governo e Quirinale debbono essere autonomi, ognuno nel rispetto del proprio ruolo». La ragione, però, consigliava a Berlusconi di non dimenticare una regola classica della politica, dell’ imprenditoria e, appunto, dell’ arte militare: mai combattere contemporaneamente su due fronti. Ha prevalso la via del duello in campo aperto. Una scelta più netta, certo. E più conseguente con ciò che Berlusconi, da giorni, va ripetendo a proposito di certi magistrati: «Contro di me e la Fininvest c’ è un uso distorto della giustizia»; «La troppa popolarità rischia di diventare impunità»; «E’ una situazione anomala che non può trovar posto in una democrazia vera. Occorre mettervi rimedio». Ma una scelta, anche, più difficile e irta di incognite. La principale: dopo, che cosa accadrà? Dopo, infatti, rimane aperto e irrisolto il conflitto tra i poteri dello Stato. Afferma il politologo Sergio Romano: «E’ inutile negarlo, siamo in piena crisi istituzionale. Nessuno accetta di rientrare nei ranghi esercitando il proprio ruolo come prescritto dalla Costituzione. Non i magistrati, che dovrebbero indagare e basta. Non il capo dello Stato, che continua a proclamarsi garante di scelte politiche che invece spettano all’ esecutivo. Non il Parlamento, che per esempio in vicende come quella della Rai si comporta da superconsiglio d’ amministrazione.
E neppure il governo, dove non appare mai chiaro il confine tra interesse di parte dei singoli e amministrazione della cosa pubblica». In questo clima da «tutti contro tutti», 24 ore prima del caso Borrelli, Berlusconi si era trovato alle prese con l’ ennesimo caso Scalfaro. La decisione del capo dello Stato di inviare al presidente della Camera, Irene Pivetti, una lettera nella quale si lamentava di «essere stato impedito» a causa della ristrettezza dei tempi di esaminare la Legge finanziaria, e per invitare il Parlamento a esercitare «la massima vigilanza», aveva provocato un duro sfogo in privato del presidente del Consiglio. Già da qualche giorno le critiche di Scalfaro avevano messo in allarme Berlusconi. Prima, a Finanziaria ancora in discussione, i pressanti moniti alla solidarietà, letti da tutti come siluri ai tagli alle pensioni. Poi il tono accigliato con il quale aveva ricevuto Gianni Letta che gli presentava le 400 pagine della manovra economica; e, ancora di più, l’ invito perentorio a eliminare l’ aumento del canone pagato dalla Rai allo Stato e a stralciare la riforma della previdenza. L’ 1 ottobre, sulla piazza di Marzabotto, altra ramanzina: «Non si deve commettere l’ ingiustizia di colpire i più deboli, altrimenti è aggredita e minacciata pure la pace». Fino all’ esternazione multipla di domenica 2, a Domodossola: «Ho fatto varie telefonate a Berlusconi per impedirgli di commettere degli errori di procedura e di sostanza...».
E, soprattutto: «Perché ci sia una dittatura occorre un uomo che voglia fare il dittatore e un popolo che lo accetti. Chi portò il fascismo al potere fu la massa enorme di quanti rimasero chiusi in casa a pensare ai loro piccoli interessi». Per 24 ore, tra Arcore e Roma, un irritatissimo Berlusconi è rimasto a rimuginare su quelle parole. «Avremo fatto qualche piccolo pasticcio sulla Finanziaria» ha reagito «ma che cosa c’ entra l’ accenno alla dittatura? E perché incitare la gente a uscire dalle case proprio in vista dello sciopero generale?». Ad accrescere il malumore era il fatto che, mentre Scalfaro ostentava freddezza o addirittura ostilità, la stampa internazionale, per la prima volta da mesi, elogiava apertamente il governo italiano. «Ha mostrato un coraggio che pochi gli avevano accreditato» scriveva il settimanale americano Newsweek. E il Wall Street Journal: «Ogni paese occidentale dovrebbe imitare l’ Italia per quanto ha deciso di fare sulla previdenza pubblica. Berlusconi si è comportato da vero uomo di governo». Tanto che il Cavaliere aveva, per qualche ora, accarezzato l’ ipotesi di respingere al mittente gli allarmi di Scalfaro. Finché non è stato reso noto il messaggio del capo dello Stato. Il leader di Alleanza nazionale Gianfranco Fini, commentandolo con alcuni fedelissimi, ne ha fornito una valutazione squisitamente politica.
Scalfaro, è stato il ragionamento di Fini, cerca di resuscitare la ex Dc; e, con l’ intervento sulle pensioni, vuol preparare il terreno a un sì alla Finanziaria da parte del Partito popolare. Si chiede anche Romano: «Scalfaro vuol fare politica in prima persona? E’ possibile, dal momento che prima ancora della nascita del governo aveva inviato a Berlusconi una lettera pretendendo precise garanzie sulla linea e sulle alleanze dell’ esecutivo. Cosa che però non rientra nelle sue prerogative istituzionali». I rapporti tra Quirinale e Palazzo Chigi tornano a coinvolgere l’ inchiesta di Mani pulite. Dovendo scegliere tra questi tre poteri, gli italiani, finora, hanno mostrato una netta preferenza per Di Pietro. «Ma» avverte Nicola Piepoli, direttore dell’ istituto Cirm «gli ultimi sondaggi rivelano che, più che la questione morale, preoccupa ormai la crisi economica. E se è vero che la gente considera Scalfaro una sorta di padre nobile, è ancora più vero che desidera che Berlusconi governi, preferibilmente bene».
Il Quirinale, però, ha già pronta la prossima mossa: il problema della separazione tra Berlusconi e Fininvest. Che cosa hanno concluso i tre saggi incaricati di studiare la soluzione al conflitto d’ interessi? Perché il capo del governo non rivela il contenuto del documento? Stando a un’ attendibile ricostruzione, il progetto si differenzia da quello esposto il 29 luglio soprattutto su due punti. Primo: in luogo del «gestore» con ampi poteri, che avrebbe dovuto sedere nei consigli di amministrazione delle aziende Fininvest, compare un «garante fiduciario» con funzioni limitate ai casi di incompatibilità con il ruolo pubblico di Berlusconi. Secondo: le autorità di riferimento non sono più il presidente della Repubblica e quelli delle Camere, ma l’ Antitrust, il garante per l’ editoria e la Consob. C’ è anche un terzo punto, che riguarda l’ eventualità che Berlusconi ceda in tutto o in parte le proprie attività, a cominciare dai network tv: ma, pare, i saggi ne parlano come di un’ ipotesi. Certo è che il Cavaliere, dando una prima scorsa al documento, ha avuto una reazione «quasi di fastidio» riferiscono. Ora la questione torna alla ribalta. Forse, come pedina chiave nella partita tra Palazzo Chigi, Quirinale e magistratura.