Tecnologia
December 14 2017
Sono passati tre anni dalla chiusura di Mt. Gox, il servizio più popolare per lo scambio di bitcoin fino al 2014. Dall’estate dell’anno prima alla dismissione di febbraio, la popolare piattaforma aveva gestito circa il 21% di tutte le transazioni di criptomoneta al mondo, ponendosi come organo non ufficiale, ma evidentemente privilegiato, su cui trafficare soldi digitali non tracciabili.
A causa di una violazione da parte di terzi, Mt. Gox annunciava la temporanea sospensione delle attività con il conseguente blocco della ricezione, ritiro e trasferimento di bitcoin. Il risultato? Oltre 850 mila coin svaniti nel nulla, tra i 390 e i 450 milioni di dollari complessivi, e migliaia di utenti improvvisamente senza un briciolo di risparmio. Ovvio aspettarsi una ricaduta sul valore della valuta, che da lì a poco toccò uno dei suoi momenti più bassi, tanto che negli ambienti finanziari si parlava già di una morte annunciata.
E invece no, chi aveva scommesso sul movimento decentralizzato continuò a farlo, con una prudenza maggiore. Alla fine, la chiusura di Mt. Gox fece capire ai fautori che non conveniva affidare il proprio portafoglio a un ente di terzo ma tenersi tutto sul computer, come peraltro era nell’idea originale dei primi coiner. Bene, tutto risolto? Non esattamente.
Fin quando il traffico dei bitcoin, pur in rialzo, si è mantenuto in certi limiti, le reti che ne consentono il passaggio, il mining (qui spieghiamo di cosa si tratta) e lo scambio, hanno tenuto bene, permettendo una crescita organica delle risorse necessarie (server, data center, network di comunicazione). Il problema è che in assenza della benché più minima logica previsionale, il boom che ha portato a raggiungere la soglia di 19 mila dollari ha creato più di un grattacapo ai portali che seguono e aggiornano il valore della moneta e ai siti di scambio che, nonostante Mt. Gox, continuano a esistere, seppur con un margine minore.
Oggi Bitfinex è la più grande piazza al mondo per lo scambio e il cambio (la conversione in USD) di bitcoin, oltre che come archivio di memorizzazione e deposito personale. Il 12 dicembre di quest’anno, è stata colpita da un grosso DDoS, un attacco hacker di massa volto a mettere fuori uso i server e interrompere le operazioni. Di solito una tecnica del genere si usa per due motivi. Il primo: spingere gli iscritti a rivolgersi altrove, abbandonando il servizio irraggiungibile. Il secondo: avere tutto il tempo a disposizione, in quanto cracker (cioè gli hacker cattivi che rubano i soldi), per violare per quanto possibile i database della compagnia e trasferire sui propri conti i bitcoin dei risparmiatori.
Più o meno nella stessa giornata, Coinbase, tra i wallet (i portafogli digitali) più usati dagli investitori ha dovuto bloccare le attività a causa di un eccessivo traffico avvertito in concomitanza del record dei 19 mila dollari. Anche qui, 10 milioni di persone sono cadute nel panico, memori forse di quel febbraio 2014 e della bancarotta di Mt. Gox.
Basterebbero questi due esempi per dimostrare quanto lavoro debba ancora essere fatto nel sottobosco di gestione dei bitcoin ma possiamo tranquillamente andare avanti. Il 7 dicembre, durante un particolare periodo di sali-e-scendi della moneta, la piattaforma di scambio di Coinbase, conosciuta come GDAX, è andata offline per decine volte in qualche ora, evidenziando i limiti di quella che non è propriamente l’ultima arrivata nel panorama dell’oro crittografato.
La scorsa settimana, NiceHash, marketplace sloveno che accetta pagamenti anche in bitcoin, ha confermato di esser stato vittima di un attacco cyber, con una sottrazione di monete pari a circa 64 milioni di dollari. E prima ancora era toccato a Teher…
Insomma, siamo sicuri che la febbre da bitcoin proceda di pari passo con l’adeguamento delle infrastrutture a supporto? Gli esperti dicono come il problema del sovraccarico riguardi non solo la criptocurrency ma tutto il mondo finanziario digitale. Nella pratica, se per qualunque ragione migliaia di persone si fiondassero tutte sullo stesso sito di un istituto di credito, questo finirebbe per collassare. Vero, solo che il mercato dei bitcoin non conosce sosta e dunque non può permettersi momenti di manutenzione.
Proprio l’assenza di un organo regolatore centrale, unito all’esistenza di una moneta unica, uguale e universale, richiede ai gestori e ai portali di scambio, di essere sempre attivi e funzionanti, a differenza di quanto accade per i servizi disponibili localmente. Se ci avete fatto caso, dai vostri conti tradizionali online potete effettuare operazioni solo entro una certa fascia oraria, di norma dalle 7 alle 22. Ciò comporta una concentrazione più ampia di utenti in periodi temporali più corti ma consente anche di chiudere l’ingresso agli eventuali cybercriminali, rafforzando di notte le difese.
Coinbase, uno tra i tanti, è sempre accessibile, 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Le stesse borse che stabiliscono il prezzo dei bitcoin non chiudono mai, contribuendo a rendere ancora più complicata e frenetica la situazione.
C’è una soluzione a tutto questo?
Bisogna partire dall'implementazione degli strumenti a disposizione, le reti e il cloud, per poi equilibrare la situazione a livello globale, magari permettendo effettivamente ai portali più attivi di chiudere per qualche ora, per effettuare i dovuti controlli e migliorare la sicurezza.
Ciò non vorrebbe dire burocratizzare un movimento che interessa un numero sempre più elevato di persone ma proteggerlo, aumentandone la consapevolezza verso i risparmiatori, soprattuto quelli insicuri.