Musica
May 24 2021
Quello organizzato dall'amica Patti Smith il 22 maggio per celebrare il suo ottantesimo compleanno sarà uno dei primi eventi dal vivo dello Stato di New York in tempi di Covid. Viaggio nei messaggi e nei dettagli poco conosciuti della vita del menestrello di Blowin' in the Wind, genio eccentrico che ha tenuto 92 concerti all'anno per 31 anni consecutivi, ha vinto Oscar, Golden Globe, 10 Grammy Award, il premio Pulitzer. E il Nobel per la Letteratura non è andato nemmeno a ritirarlo.
Tutti considerano Bob Dylan un poeta, ma lui si definisce un trapezista. Un artista del volo libero, un autore che si concede la libertà dell'assoluta incoerenza, capace di reinventarsi ogni volta che sale sul palco ed entra in sala d'incisione. Dal 1962 a oggi Robert Allen Zimmerman (il vero nome che ne svela le origini ebraiche) ha rivoluzionato la musica contemporanea, ma soprattutto se stesso. Andando controvento in direzione ostinata e contraria. Sempre dirompente, come la sua leggendaria esibizione al Newport Folk Festival del 1965, quando nel regno della chitarra acustica e delle melodie agresti mandò su tutte le furie l'audience a colpi di chitarra elettrica e suoni distorti.
Lo fece per dire al mondo: «Guardate che il futuro della musica si chiama rock and roll e presto ogni giovane d'America avrà una chitarra elettrica nella sua cameretta». Prese fischi e insulti e tornò a New York consapevole di aver avuto una grande intuizione, allergico, già allora, a qualsiasi etichetta, in particolare a quella di «portavoce di una generazione» che gli venne affibbiata ai tempi delle sue canzoni «politiche» negli anni delle marce a Washington per i diritti civili, del conflitto in Vietnam, della Guerra fredda e dell'assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Da Blowin' in the Wind a The Times They Are A-Changin', da Masters of War a Like a Rolling Stone ad Hurricane dedicata al pugile americano Rubin Carter, condannato ingiustamente per un triplice omicidio avvenuto nel 1966 e definitivamente scagionato dalle accuse solo nel 1988.
Del suo rapporto conflittuale con i media, per usare un eufemismo, e il gossip non mancano esempi clamorosi. A chi negli anni Sessanta gli chiedeva se si sentiva più un cantante o un poeta, lui amava rispondere sogghignando «Sono solo un uomo che canta e balla». Non ha mai detto la verità alla stampa Bob Dylan, e lo ha anche ammesso in una rara intervista rilasciata a Ed Bradley nel 2004 per il format tv della Cbs, 60 Minutes: «Le uniche persone a cui devi pensare due volte prima di mentire sono te stesso e Dio. Il resto non conta nulla».
Per sfuggire alla fama dopo il successo dei primi album, Dylan scappò da New York a Woodstock, ma fu inutile, perché ogni giorno la sua casa era circondata da fan che chiedevano udienza e frugavano nei suoi bidoni della spazzatura: «Gente strana che voleva parlare con me di politica, filosofia e agricoltura organica: ma io non sapevo e non so nulla di agricoltura…». Altri tempi: oggi Dylan è a un passo dagli 80 anni (il 24 maggio), un anniversario che verrà festeggiato con un concerto tributo dell'amica Patti Smith al Kaatsbaan Cultural Park di Tivoli nello stato di New York, uno dei primi eventi live post Covid-19 (è programmato per il 22 maggio 2021).
Comprendere l'arte del ragazzo di Duluth, Minnesota, significa accettare che la sua traiettoria artistica non ha un filo rosso che la tiene insieme. Lui da 60 anni rinnega se stesso, le sue certezze, il suo stesso linguaggio, il modo di interpretare le canzoni e di stare sul palco. Dylan è Knockin' on Heaven's Door, hit composta per la colonna sonora del film Pat Garrett & Billy The Kid, una delle canzoni più popolari di sempre, reinterpretata da Guns 'N' Roses, U2, Aretha Franklin, Bruce Springsteen, Eric Clapton e Mark Knopfler, ma è anche Down in the groove, un disco talmente brutto e incolore da non sembrare suo.
Dylan si sente ed è un groviglio inestricabile di contraddizioni, come ha spiegato mirabilmente in uno dei più recenti colpi di genio, I Contain Moltitudes, il brano in cui cita il pantheon dei suoi riferimenti. Elitari e nazional-popolari: dal poeta Walt Whitman a Indiana Jones, da Anna Frank ai Rolling Stones, a David Bowie, Fryderyk Chopin e Ludwig van Beethoven. Un modo per dire: io sono pop anche se forse non ve ne siete ancora accorti.
In realtà la sua statura di artista cerebrale, inarrivabile e popolare al tempo stesso è svelata dalle migliaia e migliaia di remake dei suoi brani (da Adele a Jimi Hendrix), l'unica testimonianza rimasta di com'erano le sue canzoni in origine. Già, perché Dylan, nel prendere progressivamente le distanze da tutto e tutti, si è provocatoriamente allontanato dalle sue composizioni più note, suonandole dal vivo in modo da renderle irriconoscibili, storpiandole vocalmente e reinventandone gli arrangiamenti. Qualunque artista verrebbe metaforicamente linciato dai fan, lui no. Raccoglie applausi e sold out girando in lungo e in largo il mondo con un Never Ending Tour iniziato nel giugno 1988 e che non si è mai interrotto, se non a inizio 2020 per la pandemia. Novantadue concerti all'anno per 31 anni. In media, uno show ogni quattro giorni.
Spiazzare sempre per non morire come artista, per non consegnarsi al già detto, già visto è già fatto: questo è il marchio Dylan, cantore natalizio in chiave folk/tex mex nell'album Christmas in the Heart, protagonista di un epico tributo a Frank Sinatra nel disco Shadow in the Night, insuperabile narratore della tragedia del Titanic nei 14 minuti di Tempest, e autore della più emozionante e intensa canzone-tributo all'amico John Lennon, Roll on John.
Dopo l'Oscar, il Golden Globe, 10 Grammy Award e il Pulitzer, nel 2016 è arrivato il Premio Nobel per la letteratura «per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione musicale americana». Ovviamente, non si è presentato a ritirarlo, adducendo improbabili impegni precedenti e beccandosi una discreta dose di odio social.
Solo rumori di fondo per uno come lui che ha messo tutti a tacere con poche righe inviate all'Accademia svedese: «Se qualcuno mi avesse detto che avrei avuto la minima possibilità di vincere il Premio Nobel, avrei pensato che era probabile quanto un mio viaggio sulla Luna. Non ho mai avuto il tempo di chiedere a me stesso: "Le mie canzoni sono letteratura?". Quindi ringrazio l'Accademia svedese, per aver avuto il tempo di prendere in considerazione questa domanda, e, alla fine, per aver fornito una risposta così straordinaria».