Boccia Artieri: «Preoccupa l’escalation comunicativa della campagna elettorale»

Come giudicare dal punto di vista comunicativo questa campagna elettorale? cosa hanno detto i politici agli italiani e soprattutto, come? Ogni scontro prima del voto è fonte di analisi da parte di chi si intende di comunicazione (in generale, non solo politica). Per il sociologo della comunicazione e dei media digitali all’Università di Urbino Carlo Bo, questa «campagna elettorale sta facendo registrare una preoccupante crescita del tratto d’inciviltà»

E riferendosi alla leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni -che i sondaggi danno per vincente- il professore rileva come «il suo linguaggio sollecita, da una parte, una forte dimensione di appartenenza - e quindi di distinzione non solo dai partiti cui si contrappone ma anche dai propri alleati – e, dall'altra, vuole marcare una continuità rispetto alla sua storia e a quella di un partito, l’unico, che è stato all'opposizione del governo».

In principio fu Harold Lasswell (1902-1978), insigne sociologo della Scuola di Chicago: per lo studioso della scienza politica applicata alla teoria della comunicazione, il linguaggio della politica era, sostanzialmente, il linguaggio del potere e della decisione. La politica era “un esercizio di persuasione, una negoziazione verbale, un’interazione di natura contrattuale in cui può determinarsi cooperazione oppure competizione”. In seguito la scienza politica si è sempre più sovrapposta alle sue forme comunicative tanto da divenire una formidabile disciplina da applicare ad ogni appuntamento elettorale. Come nel corso della campagna elettorale che ci sta portando dritti all’appuntamento del 25 settembre, un agone politico caratterizzato da un preoccupante imbarbarimento dei toni linguistici: senza contenuti politici altrettanto importanti.

Ragionando sulla sottile linea che separa la comunicazione politica dal linguaggio in uso a leader e candidati in corsa per un seggio parlamentare, Panorama.it ha incontrato il sociologo dei media Boccia Artieri.

Professore, l’attuale campagna politica profila all’orizzonte una crescita del tasso di inciviltà presente nella comunicazione pubblica.

«Si tratta di un fenomeno che ci possiamo aspettare è che è dovuto da due variabili in gioco. La prima ha a che fare con la brevità temporale che caratterizza la campagna stessa e che accelera l’escalation comunicativa nel tentativo di raccogliere l’attenzione del pubblico e focalizzarsi su temi divisivi che sappiano far schierare l’elettorato nel modo più netto possibile. La seconda ha a che fare con una “normalizzazione” dell’uso del linguaggio sopra le righe, volgare o violento come una retorica tutto sommato accettata dai cittadini».

Inciviltà tout court, pare di comprendere…

«L’inciviltà nella politica è un tratto diffuso e comune nei diversi paesi del mondo. Ma per capirne la portata dobbiamo considerare il concetto di “inciviltà” come un fenomeno costituito da diverse dimensioni diverse e che diverso peso hanno nella tolleranza o meno dei cittadini».

Negli ultimi anni, il quadro pare essere peggiorato!

«In una recente ricerca che stiamo svolgendo assieme a Sara Bentivegna e Rossella Rega assieme alla società di ricerca IPSOS abbiamo individuato cinque forme di inciviltà percepita nella politica che sono inciviltà discorsiva, informativa, volgare, violenta e discriminatoria».

Una ricerca condotta in presa diretta.

«Un primo dato che possiamo raccontare è che esiste oggi un livello più alto di tolleranza nei confronti della inciviltà discorsiva e informativa. E questo è dovuto principalmente al fatto che in un contesto, come il nostro, in cui il populismo con i suoi linguaggi è presente stabilmente da tempo a livello istituzionale, le pratiche di disconferma dell’altro, l’uso di appellativi dispregiativi e nomignoli per l’avversario e di produzione di versioni alternative della realtà sono così diffuse da non sollevare particolari valutazioni negative da parte dei cittadini».

Professore, ci perdoni, la campagna elettorale da sempre è un’arena piuttosto accesa linguisticamente.

«Per questo l’utilizzo di toni più accesi in questi ambiti, tipici di una campagna elettorale in cui ci si confronta con goi avversari e sui programmi, sono maggiormente tollerati dalle persone e i politici sanno di poterli utilizzare senza particolari conseguenze che non siano il rilancio di polemiche attraverso i media. E, d’altra parte, proprio il continuo trattare all’interno dei media queste forme di inciviltà, raccontandole, commentandole, offrendone versioni diverse, non fa che aumentare il livello di desensibilizzazione: l’abitudine a vederle rappresentate si trasforma così in una sorta di tacita tolleranza».

Intanto sta facendo discutere il linguaggio utilizzato da Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, che tutti danno per vincente.

«Quello utilizzato da Giorgia Meloni è un linguaggio che sollecita da una parte una forte dimensione di appartenenza - e quindi di distinzione non solo dai partiti cui si contrappone ma anche dai propri alleati - e dall'altra vuole marcare una continuità rispetto alla sua storia e a quella di un partito, l’unico, che è stato all'opposizione del governo. Mi pare sia una strategia utile per mantenere salda nei sondaggi la percentuale di alto consenso non abbassando i toni. Abbiamo visto come nel parlare in video rivolti a un pubblico internazionale sia capace di forme più moderate; ma questo è, appunto, il modo di rivolgersi ad un'altra audience».

E per il suo elettorato tradizionale?

«Per questo e per la presa sugli indecisi, credo ritenga più adatto mantenere lo scarto di linguaggio di chi mostra una discontinuità e una diversità radicale, anche a rischio di camminare sul filo del rasoio della critica mediale e degli altri partiti, che comunque è funzionale a dinamiche in group/out group».

Non dimentichiamo che siamo nel bel mezzo della società dei social media, lei questo lo sa bene…

«Possiamo poi dire che l’abitudine all’uso dei social media per informarsi, per postare contenuti, anche politici, commentare, condividere, ecc. – rende gli utenti meno sensibili ai toni accessi, all’utilizzo di termini rudi, agli scontri tra politici, ecc. Ma non si tratta solo dell’abitudine all’utilizzo di internet e dei social media ma di trasformazioni che riguardano l’intero sistema dei media».

A proposito: i social network rappresentano, ormai, la nuova sfera pubblica, anche politica.

«Attualmente sono oltre 30 milioni gli utenti italiani attivi mensilmente su Facebook, con una penetrazione di circa il 97%: questo social network rappresenta per il nostro Paese un paradigma d’uso della connessione digitale particolarmente diffuso e che ha socializzato molti italiani all’uso stesso del Web e al senso dell’essere connessi. Un osservatorio privilegiato per comprendere la mutazione di dinamiche sociali e relazionali che vanno ben oltre l’uso dello stesso social network».

Aumento della socializzazione, certo, ma anche del linguaggio “pubblico” senza regole. Soprattutto in campagna elettorale…

«Sui social media parliamo spesso usando i linguaggi e le modalità del privato o del privato protetto (pensiamo le cose che ci diciamo al bar o in un ristorante) in un luogo estremamente pubblico e a forte visibilità. Da qui la sensazione che sia "senza regole". Per meglio dire, online valgono le regole più spicce del linguaggio interpersonale, comprese le intemperanze e gli entusiasmi gridati. La sensazione è di parlare con una cerchia ristretta di conoscenti quando invece si è molto più esposti. Ma, soprattutto, le conseguenze di quello che diciamo sono più amplificate e gravide di conseguenze perché restano in pubblico e sono esposte allo sguardo e ai commenti di persone che non sappiamo ci stiano guardando».

La ricchezza mediatica pare generare confusione.

«L’attuale contesto mediale è infatti caratterizzato da dinamiche di convergenza e ibridazione, in cui i mass media partecipano, da una parte, all’amplificazione dei discorsi e delle controversie emerse online e, dall’altra, offrono contenuti da trattare online secondo logiche ambivalenti, capaci di creare un discorso pubblico complessivo allo stesso tempo informato e disinformato ma che, nel suo essere orientato alla partecipazione, chiede di prendere posizione attraverso dinamiche di engagement».

Da sempre l’occhio dei sociologi della comunicazione è puntato sul concetto di partecipazione: mi pare oggi piuttosto ondivago.

«La partecipazione contempla sia un versante di luce che un lato oscuro, come abbiamo visto emergere negli ultimi anni attorno alle molte pratiche di dark participation attorno a contenuti mediali incivili, disinformativi e polarizzanti. Pratiche utili, come quelle di partecipazione positiva, a sostenere una propria adesione a una visione del mondo e ai suoi sostenitori politici, solo che vengono giocate verso l’avversario e le sue idee piuttosto che a sostegno diretto della propria posizione politica».

Il rischio di una deriva, non solo comunicativa, è evidente.

«Da una parte occorre guardare l’inciviltà politica nei linguaggi e nelle modalità comunicative utilizzate dai politici, dall’altra dovremo osservare come i cittadini e le cittadine si muovono sullo stesso crinale in cui l’inciviltà rischia di essere un modo comune di fare politica durante una campagna elettorale».

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Giovanni Boccia Artieri, bolognese, classe 1967, è professore ordinario di Sociologia della comunicazione e dei media digitali all’Università di Urbino Carlo Bo, dove dirige il Dipartimento di Scienze della comunicazione, studi umanistici e internazionali e di cui è prorettore. Coordina il dottorato in Studi umanistici e dirige il Centro LaRiCA (Laboratorio di Ricerca sulla Comunicazione Avanzata). Tra le sue più recenti pubblicazioni, “Le teorie delle comunicazioni di massa e la sfida digitale” (con S. Bentivegna, Laterza 2019), “Voci della democrazia. Il futuro del dibattito pubblico” (con S. Bentivegna, il Mulino 2021) e “Comunicare. Persone, relazioni, media” (con F. Colombo, G. Gili, Laterza 2022).

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