Boris Johnson Brexit
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Perché Boris Johnson può fare la Brexit

Per capire Boris Johnson bisogna tener in mente il poeta-guerriero Pericle definito «il primo cittadino di Atene» dallo storico Tucidide.

Nel suo studio al 10 Downing Street, il nuovo premier inglese ha già piazzato sulla scrivania - si dice - un busto di quel brillante demagogo e gran difensore della democrazia dell’età d’oro di Atene nel V secolo avanti Cristo.

Quando ho incontrato Boris ai tempi della campagna per il referendum del 2016 per uscire dalla Unione europea ho visto quello stesso busto nel suo ufficio da semplice deputato del Parlamento, e sopra c’era appoggiato il suo casco di plastica rinforzata che portava mentre girava in bici per le strade di Londra. Ora, da premier, non può più viaggiare in bici ma solo in auto sotto scorta e quindi nel bene o nel male, suppongo, che il suo Pericle non porti più quel casco.

A Boris piace dipingere ed è bravo. Quando aveva 14 anni aveva prodotto un autoritratto che raffigurava lui stesso come un Pericle moderno. Il giovane Boris era appassionato della Grecia antica, perché culla della democrazia, della cultura e dell’eroismo - del lato positivo della civiltà occidentale. Non ha mai amato, invece, la Roma antica. Troppo opaca, troppo imperiale.

Ne sono convinto: è stato questo a convincerlo a sostenere la campagna per uscire dalla Unione europea. I suoi tanti nemici invece dicono che l’ha fatto solo cinicamente, perché la vedeva come la strada migliore per diventare premier. Ma secondo i sondaggi la Brexit era una battaglia persa - che è stata vinta alla fine solo grazie al suo dono di sedurre la folla. E questo lo rende ora così determinato a portare a buon fine la Brexit, che lui ha voluto e fatto: quella vera, chiaro, e non la versione fasulla proposta dal suo predecessore Theresa May (lei aveva votato Remain addirittura come tanti conservatori compreso l’allora premier David Cameron). Cioè: fuori dalla Ue. Punto. Insomma, per Boris l’Unione europea governata così com’è, cioè da eurocrati non eletti, è un impero che schiaccia le libertà dell’uomo e perciò tradisce i principi nobili di Pericle.

Conosco Boris abbastanza bene da 30 anni perché lavoravo assieme a lui al Daily Telegraph, dove dal 1989 è stato corrispondente da Bruxelles, e grazie ai suoi articoli surrealmente divertenti in cui prendeva in giro la Ue, e le sue regole e leggi ridicole sulla curvatura delle banane, e la misura dei preservativi è diventato famoso, e poi dopo perché collaboravo con il settimanale The Spectator, dove dal 1999 è stato direttore.

La sua qualità principale è l’ottimismo. Sprizza energia e fantasia capaci di spazzare via, smaltire, e sciogliere, qualsiasi normale e noioso motivo per non fare qualcosa.

Una volta, ho raccontato al telefono a Stuart Reid, vicedirettore dello Spectator, la storia di un americano, ex tenente dei marines ed ex agente dei servizi segreti, venuto da Washington a trovarmi proprio a Predappio, dove in quegli anni abitavo perché stavo scrivendo una biografia di Mussolini. Ero seduto come al solito a un tavolo vicino alla fontana nella piccola incantevole piazza di Predappio Alta; leggevo un libro, con accanto un bel bicchiere di sangiovese.

Alzo gli occhi dal libro ed eccolo Brian - proprio lui - accompagnato da un’inquietante «24 ore» nera. Che ci fa qui? Be’, era venuto da Washington per ammazzarmi, diceva, se non gli avessi pagato i 250 euro che gli dovevo. Ha aperto il suo gillet color kaki e - cazzo! - aveva una pistola.

«Purtroppo non posso scrivere questa roba» ho detto al vicedirettore Stuart. E così, abbiamo chiuso la telefonata. Cinque minuti dopo mi chiama Boris. «No, non posso, assolutamente» gli dicevo. «Cosa farà Brian se lo mettiamo sullo Spectator? Cosa penserà il mio povero padre?». Entro due minuti Boris mi aveva convinto che era mio dovere fare un pezzo in cui raccontavo ogni dettaglio della vicenda, e che poi lui pubblicò come apertura col titolo Please don’t kill me, Brian!, «Per favore non ammazzarmi, Brian!». Un genio, direi.

Con la Brexit, la Gran Bretagna si trova impantanata nella più grande crisi politica dal maggio del 1940, quando solo la Raf e la Manica fermavano Hitler e Winston Churchill era diventato premier.

Oggi, l’economia britannica va meglio di quelle di quasi tutti gli altri 27 Stati membri (crescita del Pil decente, disoccupazione al 4 per cento, deficit e debito pubblico basso), tuttavia la Gran Bretagna è divisa violentemente non fra destra e sinistra, ma fra Brexiteers e Remainers.

La Brexit ha spaccato in due il partito conservatore e quello laburista e la maggioranza dei deputati di entrambi è contro la Brexit, come gran parte dei media. La maggior parte della popolazione invece - secondo i sondaggi - rimane pro Brexit.

Churchill aveva la stoffa richiesta, e come insisteva Machiavelli, anche la fortuna per portare il suo Paese dall’orlo della sconfitta alla vittoria. Secondo me, pure Boris. Come Churchill, lui è anche un brillante oratore. Ma come dicevano di Churchill, lo dicono anche di Boris: inaffidabile. Chiaramente, la Brexit non è la Seconda guerra mondiale, ma ci sono delle notevoli somiglianze fra il maggio 1940 e il luglio 2019. Boris, che ha scritto una biografia di Churchill di successo, sicuramente ne è ben consapevole.

Nel 1940 gran parte della classe politica britannica voleva ancora placare Hitler, come aveva fatto invano negli Anni Trenta, e persino trattare per la pace. Churchill rifiutava, ma non aveva l’appoggio né della maggioranza del suo Cabinet (giunta) – che pensava come il suo predecessore Neville Chamberlain appena dimesso - né dei deputati al Parlamento.

Sono bastati però due discorsi brillanti per convincere il Cabinet e poi il Parlamento. Il predecessore di Boris - Theresa May appena dimessa - ha sempre cercato di placare gli eurocrati al comando di Bruxelles, ma invano. Per esempio, il suo rifiuto di contemplare una Brexit senza nessun accordo per paura delle potenziali conseguenze economiche negative ha indebolito le sue possibilità di portare a casa un accordo accettabile.

Boris invece ha ribadito: l’unica soluzione è di uscire dalla Ue entro il 31 ottobre (Halloween...) punto e basta - la nuova data già rimandata due volte per la chiusura delle trattative che dovevano durare solo due anni. Ha proclamato: Deal or no deal! Do or die! («Con accordo, oppure senza! Fare oppure morire!»). Ma il Parlamento anti Brexit? Boris troverà il modo di sistemarlo. Sarà un gioco di poker ad alta tensione. Ce la farà Boris, come ce l’ha fatta Churchill? Sì, a mio parere.

Lasciate stare tutte le fake news disseminate nei suoi confronti. Fra le tante, viene definito pigro, disordinato, razzista, snob, di estrema destra e buffone. Ma si alza alle 5, perbacco, e prende in mano il telefono alle 6 e mezzo per organizzare la sua giornata e malgrado i suoi 55 anni, prima di diventare premier, andava ovunque in bici. Disordinato lo è sì, ma solo per le cose non fondamentali, come le tante multe fotografate di recente sul vetro della sua macchina.

Ecco un esempio «doc» delle fake news su Boris che arrivano dalla Cnn, sempre ossessivamente politically correct: «Ha tanti precedenti quando si tratta di commenti insensati, come quello per cui le donne che portano il velo islamico che copre il loro volto somigliano alle “cassette della posta”»... Ma in quell’articolo, scritto nel 2018 sul Daily Telegraph, Boris si era espresso chiaramente, in nome della libertà, contro la decisione della Danimarca di vietare il niqab e il burqa (come già deciso in Francia, Germania, Belgio e Austria) - anche se rendeva le donne simili a cassette della posta. Razzista? Islamofobo? Ma va là! Non è poi di estrema destra. Anzi. Boris è pro immigrazione essendo di origini turche, russe e tedesche. Fra i suoi bisnonni figurano musulmani, ebrei e cristiani. Si autodefinisce «a one man melting pot» («il melting pot in un uomo solo»). Ha capelli biondi come Donald Trump e come l’intero villaggio turco da dove proviene - dicono. Trump l’ha osannato, ma non è un Trump inglese. Anzi. Nel passato ha criticato il presidente americano. Non vuole fermare gli immigrati, per esempio, vuole semplicemente salvare la patria dall’imperialismo Ue. Vede gli immigrati come un bene, ma se il flusso è sostenibile. Insomma, Boris è un semplice sovranista. Vuole «Take back control» (lo slogan della campagna del referendum), cioè riprendere il controllo del suo Paese da Bruxelles. Ed ecco perché sostiene la Brexit.

Non è neanche nato da una famiglia borghese «con in bocca un cucchiaio d’argento», come vuole una leggenda metropolitana. Anzi. La sua famiglia era benestante ma non ricca. Ha vinto una borsa di studio per frequentare il famoso collegio privato di Eton e anche per andare al Balliol College all’Università di Oxford per laurearsi in «Classics» (greco antico e latino).

Stranamente al popolo inglese - cioè ai poveri - piace un sacco malgrado la sua educazione privilegiata. Invece, gli intellettuali da salotto lo odiano. La sua gioventù non è stata né felice né stabile. Era praticamente sordo da piccolo e ha dovuto subire vari interventi. Suo padre Stanley cambiava lavoro e Paese spesso (è stato eurodeputato per parecchi anni) ed era spesso assente, così la sua famiglia ha vissuto in 32 case diverse in 15 anni. Nato a New York nel 1964 in un appartamento in affitto davanti al mitico Chelsea Hotel, Boris, primogenito di quattro figli, aveva la cittadinanza americana a cui ha rinunciato solo nel 2016 per motivi fiscali.

Stanley, il padre, era un donnaiolo che faceva soffrire sua madre Charlotte, una pittrice che ha poi avuto un esaurimento nervoso ed è stata a lungo ricoverata negli anni Settanta. Hanno divorziato nel 1980, quando Boris aveva 16 anni. Questo lo ha fatto soffrire molto. Sua sorella Rachel, giornalista, dice che quando Boris vuole qualcosa è «senza pietà» e che da bambino diceva: «Voglio essere il re del mondo». Secondo sua madre, invece, lo diceva solo perché voleva proteggersi da tutte le sofferenze della vita.

Dopo Oxford, dove è diventato presidente della prestigiosa Oxford Union, entrò al Times come stagista pagato. Tuttavia fu licenziato presto, quando inserì in un articolo una citazione di uno storico (suo padrino) inventata da Boris di sana pianta, riferita al re inglese Riccardo III e al suo amante omosessuale. «Una vergogna totale» ha ammesso alla Bbc, «non riuscivo a trovare il modo di uscirne». Ha trovato però subito lavoro al Daily Telegraph grazie al direttore Max Hastings, che ha assunto anche me in quel periodo.

Hastings all’inizio lo amava, ma di recente ha detto: «Se diventa premier con le mani sul tasto della bomba atomica, io emigro in Sud America». Conrad Black, canadese, all’epoca propietario del Telegraph, lo adorava. Ha detto: «E una volpe furba travestita da orsacchiotto». Come suo padre, Boris ha avuto tante storie d’amore. Lasciando Eton, ha fatto scattare una foto ritratto (presa dal basso verso alto) per il libro dei ricordi della scuola che evidenziava bene i suoi attributi, col commento: «Più tacche sul mio fallocratico fallo». La cosa che attira le donne è la stessa cosa che attira il popolo.

La sua prima moglie Allegra Mostyn-Owen, figlia della scrittrice italiana Gaia Servadio, l’ha incontrata a Oxford. Allegra era considerata la più bella ragazza dell’università. Ma al loro matrimonio, nel 1987, Boris ha perso l’anello nuziale dopo un’ora. Hanno divorziato nel 1993, senza figli. Lei lo aveva seguito a Bruxelles, ma si lamentava: «Non so mai dov’è». Dopo 12 giorni, ha sposato Marina Wheeler, metà indiana, avvocato di primo rango che odia stare sotto i riflettori, e che lui aveva conosciuto da ragazzo alla scuola internazionale di Bruxelles. Hanno avuto quattro figli.

Ha avuto anche una storia con Petronella Wyatt, che lavorava allo Spectator, e l’ha fatta abortire ma lui non pagava le spese dell’intervento. Conosco bene Petronella che mi ha detto: «Gli voglio tanto bene malgrado tutto. Mi faceva sentire viva». Ci sono state altre donne, e almeno un figlio illegittimo. Ogni volta che la stampa lo beccava con un nuovo flirt, Marina lo chiudeva fuori casa. Alla fine lei non ne poteva più e si sono lasciati e stanno per divorziare. Ora, sta con Carrie Symonds che ha 31 anni (24 meno di lui), attivista conservatore ed ecologista esaltata che l’ha fatto diventare vegano e tagliare i cappelli. Nel giugno scorso hanno furiosamente litigato, nell’appartarmento di lei, e i vicini (lettori del Guardian, cioè Repubblica inglese...) hanno chiamato la polizia. Per la prima volta un premier britannico abiterà al numero 10 di Downing Street con un donna che non sia sua moglie.

Di recente, Hastings ha raccontato che a un pranzo prima della sua canditatura a sindaco di Londra (Boris è stato sindaco per due mandati dal 2008 al 2016) gli ha chiesto: «Mi devo candidare?». Hastings ha risposto: «Certo, ma devi tenere sotto chiave il tuo pisello». Boris non è un buffone, come si legge ovunque.

Fa il buffone che è una cosa diversa.

I suoi tanti critici mi ricordano i tanti critici di Silvio Berlusconi. Sono ciechi, solitamente per scelta politica. Una volta, per esempio, Boris ha pronunciato un discorso a un gruppo di banchieri in un hotel londinese facendo finta di essere un cretino che aveva dimenticato i suoi appunti nel taxi e perciò costretto a parlare a braccio. Ma aveva deciso tutto prima...

Siamo andati insieme in Sardegna a Villa Certosa nel 2003 per intervistare Berlusconi come Stanlio (io), alto e magro al pari di una giraffa, e Ollio (lui), non tanto alto e robusto come un toro. Quando ho incontrato Boris prima dell’intervista, mi sono subito messo a ridere. Si era vestito come un esploratore inglese nell’Africa dell’Ottocento: giacca beige abbottonata sopra camicia e cravatta, ma poi sotto calzoncini color kaki, calzini alti quasi fino alle ginocchia e sandali.

Nell’intervista, durata circa quattro ore, il Cavaliere s’è lasciato andare dicendo che Mussolini mandava in vacanza sulle isole i suoi avversari e non li ammazzava come tanti dittatori, e che i giudici italiani sono matti e antropologicamente diversi dai normali esseri umani. Per la cronaca (vedo che Giuliano Ferrara ha ripetuto di recente l’errore sul Foglio) non è vero che abbiamo fatto ubriacare il povero Silvio con lo champagne, come lui in seguito ha sostenuto in una conferenza stampa. Ci ha fatto solo bere del tè freddo al limone. Purtroppo...

Dopo l’intervista ho detto a Boris: Berlusconi mi fa ricordare di Il Grande Gatsby del mitico romanzo di Scott Fitzgerald e delle parole del narratore Nick Carraway al miliardario Gatsby alla fine del libro: «Sono gente marcia» ho urlato attraverso il prato. «Tu vali più di tutto quel branco maledetto messo insieme». Nel caso di Gatsby, ormai uomo fallito, si riferiva ai ricchi frivoli ed edonisti della East coast americana; in quello di Berlusconi, a gran parte dei media e radical-chic al mondo. Boris era d’accordo e l’abbiamo scritto.

Boris mi ricorda Berlusconi, anche se fisicamente sono diversi, così come lo sono da un punto di vista sartoriale. Boris è iper-trasandato, Berlusconi iper-ordinato. Sono sì donnaioli entrambi, ma soprattutto sono entrambi ottimisti e hanno un’energia positiva che si trasferisce a chi gli sta attorno, e un’oratoria capace di sedurre il pubblico. Fanno i buffoni ma non lo sono.

Dicono delle cose che mandano in tilt i giornalisti puritani, specialmente quelli di sinistra - le cosiddette gaffes - che per me (e per tanti) li rendono solo più simpatici - e più umani. Nella campagna elettorale del referendum del 2016 Boris ha rilasciato pochissime interviste, una di queste l’ha data a me. L’ha concessa secondo me per nostalgia.

Lo Spectator aveva indetto un concorso tra i lettori per una poesia che prendesse in giro il presidente turco Erdogan. Ho chiesto al «turco» Boris di comporne una, e l’ha fatto! La sua ha poi vinto la competizione! In due secondi, davanti a me, ha composto quella poesia e non era niente male. Accusava Erdogan di essere uno che preferiva le capre alle donne.

Boris - come Gatsby e Berlusconi - è meglio di «the whole damn bunch put together». Del 1940 Churchill scriveva anni dopo che il momento della sua «camminata col destino» era arrivato. Ora tocca a Boris di fare la sua «camminata col destino». Lui lo sa bene, però: se non porterà a termine la Brexit entro il 31 ottobre, non solo sarà la sua fine, ma anche quella del suo partito conservatore e della Brexit stessa. 

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