Brasile-Argentina, lo scontro è ormai più politico che calcistico

Quella tra Brasile e Argentina è la madre di tutte le rivalità. No, non stiamo parlando soltanto di calcio – dove è pur vero che ogni sfida tra le due nazionali e i rispettivi club si trasforma immancabilmente in un duello all’ultimo sangue – ma anche e soprattutto di politica. Una rivalità antica, che inizia ancor prima che fosse raggiunta l’indipendenza da Portogallo e Spagna. Quando cioè le potenze colonialiste europee si contendevano il controllo delle acque intorno al Bacino del Río de la Plata.

Durante la Guerra Fredda, qualcosa del genere si era riprodotto in piccolo anche nel continente sudamericano, dove le due più potenti nazioni regionali si sono sempre guardate con sospetto, influenzando (per lo più in negativo) le loro relazioni esterne con gli altri Paesi che condividono il continente con Brasilia e Buenos Aires. Nonostante non siano mai giunti a un conflitto armato ma soltanto a dispute occasionali, le gelosie reciproche hanno segnato la storia degli ultimi secoli nei rapporti bilaterali tra Brasile e Argentina.

Così oggi, mentre dalle pampas l’esuberante nuovo presidente argentino Javier Milei scuote la politica e annuncia di voler legare il destino della nazione al dollaro americano - consegnando il Paese de facto a Washington - , nella foresta amazzonica il redivivo Luiz Inácio Lula da Silva ha già apparecchiato un’alleanza strategica con Mosca e Pechino, che prende nome di Brics.

Dunque, la distanza rimane e così anche le relazioni tra vicini di casa, che restano quelle di un tempo: cortesi, ma fredde e piene di sospetto. Da parte loro, gli argentini si mostrano sempre più insofferenti nei confronti delle performance economiche brasiliane: sono consapevoli di vivere da anni in un’economia stagnante, poco aperta al commercio internazionale, indebitata e senza accesso al credito, e dove secondo i dati del Fondo monetario internazionale il Pil non è mai cresciuto negli ultimi dodici anni (se l’Argentina fosse un membro dell’Unione europea, per dire, sarebbe da tempo in procedura d’infrazione).

Mentre invece Brasilia non soltanto cresce ma, sotto la guida di Lula, si dimostra un Paese sempre più virtuoso, sotto vari punti di vista: ad esempio, non spende più di quando introita ed esporta più di quanto importa. Non solo il Brasile sfrutta bene le sue immense risorse naturali, ma si qualifica oggi addirittura come il secondo Paese al mondo per produzione di energia da fonti rinnovabili, e il suo Pil presto supererà anche quello della Russia, con un tasso di disoccupazione stabile sotto al 10%, e un’inflazione che per il 2025 dovrebbe rispettare le previsioni della Banca Centrale.

Ovviamente, non è tutto oro quel che luccica: mentre in Argentina l’ultra-liberista Milei accende le motoseghe e promette tagli col passato per galvanizzare i suoi elettori, in Brasile l’ex presidente Jair Bolsonaro ha dovuto consegnare alla polizia il proprio passaporto, nell’ambito dell’inchiesta su «un’organizzazione criminale che ha condotto un tentativo di colpo di stato per permettere a Bolsonaro di restare al potere» dopo la sconfitta alle elezioni. In seguito all’assalto alla sede presidenziale l’8 febbraio 2023, l’ex presidente populista è ora indagato e in odore di arresto, perché sospettato di aver sostenuto (se non organizzato lui stesso) una rivolta, che è stata paragonata all’assalto al congresso del 6 gennaio 2021 negli Stati Uniti. Il presidente in carica, invece, in carcere ci ha passato più di diciotto mesi negli ultimi anni, perché condannato nel luglio 2017 a dodici anni per corruzione e riciclaggio, salvo poi essere riabilitato dalla Corte Suprema nel 2021 (dopodiché ha partecipato e vinto alle elezioni).

Inoltre, non si può dimenticare che il reddito pro capite è per entrambi i Paesi mediamente lo stesso, cioè intorno ai 10 mila dollari, e che la povertà rappresenta il comune tallone d’Achille. Ma, fatti due conti, mentre il presidente socialista Luiz Inácio Lula da Silva nel suo terzo mandato può sperare di centrare l’obiettivo - che avviò già nel 2003 con il programma «fame zero» - per strappare alla misera nera oltre 30 milioni di brasiliani, il destrorso Milei deve ancora dimostrare tutto.

E mentre Lula dall’alto delle più che positive performance economiche si coccola l’alleanza con i Paesi Brics - Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – considerati sempre più come un reale «contrappeso al mondo guidato dall'Occidente», Javier Milei per sua stessa ammissione deve «ricostruire tutto» e ha già annunciato che rinuncerà a entrare a far parte dell’alleanza economica dei Brics, che avevano formalizzato l’invito a entrare a Buenos Aires in occasione dell'ultimo vertice lo scorso agosto. La comunicazione è stata ovviamente accolta senza alcuna sorpresa in quel di Brasilia, dal momento che già prima dell’insediamento del governo Milei, l’Argentina aveva informato di volersi defilare.

Per andare dove, ancora non è chiarissimo. Nemmeno allo stesso neo presidente. La via d’uscita, per il presidente che non conosce mezze misure, è rinunciare alla moneta locale in favore dei dollari. Il che significa anche rinunciare alla politica monetaria, delegandola in pratica alla Federal Reserve americana. La qual cosa ha un senso, dal momento che Buenos Aires è sull’orlo del default: se la «dollarizzazione» permettesse al governo di mettere ordine ai conti pubblici, se fosse legata a un accordo di riduzione progressiva del debito, e se ancora permettesse di sistemare stipendi e pensioni rilanciando i consumi, allora si potrebbe pensare che la scelta ardita di Milei sia stata corretta.

Rimane il fatto che, se e quando il Brasile va a sinistra, l’Argentina va a destra, e viceversa. I due Paesi continuano a sentirsi per loro natura potenze egemoni e alternative l’una all’altra nella gestione del potere e delle relazioni con gli altri «Paesi minori» del Latinoamerica. Non è tanto la lingua (che pure conta) a marcare la distanza reciproca, quanto una visione del mondo e della politica inconciliabili. Anche e nonostante i fortissimi scambi commerciali in essere.

Scambi che all’epoca del progetto Mercosur, il Mercato Comune del Sud finalizzato a integrare la regione nell’economia globale e a rendere più forte il Sudamerica, avevano fatto ben sperare per una riconciliazione generale. Dopo la decada perdida, ovvero i terribili anni Ottanta, nei Novanta gli scambi e le relazioni commerciali fra gli Stati membri del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) erano aumentati di più del 100%. Ma l’obiettivo di rafforzare l’area diminuendo le asimmetrie interne che pesavano sullo sviluppo economico e sociale del continente, si è da tempo arenato. Soprattutto, per i perduranti timori di subalternità al Brasile da parte di tutti gli altri. Argentina in primis.

Così attualmente, sulla scia di una storia che non riesce ad avvicinare due popoli – e gli eventi sportivi ne sono specchio e riflesso ad un tempo – si va delineando una forbice tra Brasilia e Buenos Aires che allontana ancor più, anziché avvicinare, le due medio-grandi potenze. Che tuttavia forse sono diventate tali anche in ragione del fatto che non hanno mai ceduto il passo l’una all’altra, creando un equilibrio sostanziale che non è mai sfociato in atti ostili. E che però tendenzialmente conduce entrambi sempre verso il basso, anziché verso l’alto.

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