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January 11 2018
Sarà un'altra giornata cruciale per Theresa May. La premier britannica è riuscita a riottenere la fiducia al gruppo parlamentare dei Tories (la cosiddetta Commissione 1922 guidata da Graham Brady) ma oggi sarà la volta del vertice europeo.
Alla fine, dunque, la fronda dei conservatori scontenti del risultato del governo sulla Brexit ha innescato la resa dei conti interna sulla testa della stessa premier britannica. Una crisi accelerata dal rinvio del fatidico voto in Parlamento sul testo delle condizioni di uscita dall'Ue, annunciato lunedì 10 dicembre a Westminster dopo aver realizzato di non avere i numeri per l'approvazione.
La May si è assicurata un altro anno di leadership Tory con 200 voti a favore. Ma ha pagato un prezzo altissimo: l'annuncio di ritirarsi dalla corsa delle prossime elezioni (nel 2022) già da ora.
La premier britannica ha incontrato vari leader (fra questi, la cancelliera tedesca Angela Merkel rimasta sotto la pioggia ad attenderne l'uscita dall'auto) facendo appello al dialogo in vista del summit europeo di oggi. May punta a rivedere le condizioni di divorzio dall'Ue raggiunte a novembre ma il tour si è rivelato un buco nell'acqua. Nel vertice, ovviamente, si parlerà anche di Brexit ma il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e quello della Commissione europea Jean-Claude Juncker hanno già chiarito che l'accordo è quello e non potrà essere rinegoziato. Semmai, l'Ue potrebbe agevolare la May per la ratifica. Anche se non è ancora chiaro come e se l'eventuale soluzione potrà bastare per superare lo scoglio del Parlamento britannico. Insomma, a cento giorni dalla data ufficiale della Brexit, prevista il 29 marzo 2019, niente è così in bilico come oggi.
Che la situazione fosse in un vicolo cieco per Theresa May si era già capito nel fine settimana scorso. Così, la leader dei Tories, realisticamente, ha preferito dilazionare il voto fissato martedì 11 dicembre invece del salto nel buio, per il timore che una bocciatura del testo facesse scivolare Londra "in acque inesplorate" senza un accordo. Un'intesa trovata, come noto, a fatica dopo quasi due anni di altalenanti trattative e svariate dimissioni (come l’addio, a luglio, del ministro della Brexit David Davis e del titolare degli Esteri Boris Johnson per protesta contro la svolta verso una Brexit troppo “soft”).
Il negoziato ha superato due punti chiave. Il primo sul “costo del divorzio” addebitato a Londra: si stima che, fra impegni presi con Bruxelles dopo quasi mezzo secolo di Unione, copertura delle pensioni degli ex funzionari europei di nazionalità britannica e altre spese, il conto per le casse del Regno Unito si aggirerebbe sui 50 miliardi di euro. Soldi da versare, per lo più, fra il 2019 e il 2025 (anche se l'ultima scadenza porterebbe al 2064).
Il secondo, non meno cruciale, sulla libera circolazione delle persone per riconoscere lo status e i diritti di almeno quattro milioni di cittadini: tre milioni di europei residenti su suolo britannico e un milione di inglesi che vive in uno degli altri 27 Paesi Ue. Dopo il 29 marzo, invece, scatterebbe una transizione per bloccare altri arrivi almeno fino al 2020 e dar vita a una diversa gestione dei movimenti.
Irrisolta, invece, la questione del confine irlandese: la Brexit provocherebbe un ripristino di un effettivo confine fra la Repubblica d'Irlanda e l'Irlanda del Nord, con migliaia di cittadini costretti a varcare una frontiera fisica nella loro vita quotidiana. Ma l'ipotesi alternativa di una garanzia - il cosiddetto "backstop" - per mantenerla aperta è stata scartata: quei 360 chilometri di terra non possono essere il "cavallo di Troia" per un facile ingresso di merci agricole e prodotti non conformi alle norme europee.
Sgominato il fronte euroscettico interno, fautore di una "hard Brexit", la premier britannica ha escluso il ricorso a un secondo referendum - rischierebbe di spezzare di nuovo in due il Paese - e punta al voto entro il 21 gennaio 2019. Ma, come già visto, senza strappare una concessione di peso dall'Ue il pericolo è un nuovo pantano.
Uno scenario contempla anche la possibilità che l'opposizione (laburisti in testa) sfiduci il governo per andare a nuove elezioni. A quel punto, si potrebbe aprire anche la chance di indire un nuovo referendum. Oppure di virare verso un nuovo modello di uscita dall'Ue, come per esempio quello norvegese, accantonato in un primo tempo perché prevede la permanenza del Regno Unito nel mercato unico.
In alternativa, resta l'opzione della Brexit senza accordo. Ma, quasi due anni dopo il referendum, i britannici hanno preso consapevolezza che questa farebbe male (soprattutto economicamente) più a Londra che a Bruxelles.
L'ultima via potrebbe venire dal pronunciamento della Corte di giustizia europea sull'interpretazione dell'ormai famigerato “articolo 50” del Trattato, attuato per la prima volta nell'Ue in seguito al referendum del Regno Unito del 23 giugno 2016. I giudici di Lussemburgo hanno chiarito che, finché l'uscita non è avvenuta, Londra ha il diritto di revocarla anche unilateralmente, ovvero senza il consenso degli altri 27 Paesi europei. Una sentenza che riapre perfino la possibilità del ritiro della richiesta di Brexit avvenuta con la consegna della lettera di addio il 29 marzo 2017.