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October 20 2017
Theresa May costretta a vestire modi europei, l'Europa che si riscopre algida e senza fretta. Ruoli invertiti dunque, in questa seconda fase della Brexit, ammesso che qualcuno abbia capito quando si è conclusa la fase uno.
Dal 29 marzo 2017, giorno dell’inizio trattative, molta acqua è passata sotto al Tamigi, ma anche sotto alla Senna e alla Sprea Berlinese. Tuttavia ieri come oggi, contano i rapporti di forza, che al momento non sembrano sorridere a Londra. Due fattori chiave sono all'origine di questo disequilibrio tra le parti:
Anche qui, tra il dire è il fare c’è di mezzo la visione del mondo tra le due sponde della Manica e un Regno Unito irriconoscibile, quasi bipolare, dove ai cittadini UE che risiedono in UK prima viene paventato un questionario di 85 pagine da compilare online secondo linee guida non chiare, e poi viene indirizzata una rassicurante lettera aperta con la quale la May ha voluto inaugurare il vertice europeo di Bruxelles, del 20 ottobre.
Angela Merkel però non ha fretta. Sa che in gioco, ma lo sa benissimo anche la delegazione britannica, ci sono i soldi. Sono tanti e declinati nella complessa architettura giuridico-amministrativa dell’Europa. Il divorzio, in parole povere, ha un costo e non prevede scorciatoie.
L’unica arma in possesso della May, fallita la carta elezioni anticipate, è la minaccia di far saltare il banco. Come? Il Primo Ministro lo lascia solo intendere: in caso di suo fallimento, altre forze politiche potrebbero prendere il suo posto di capo negoziatore, e decretare una drastica uscita del Regno Unito dall’Europa, con buona pace di tutti gli scrupoli e dell’idea di fase uno, due o tre che dir si voglia.
l cuore dei negoziati, quelli commerciali, non inizierà prima di dicembre. Sino ad allora Londra dovrà chiarire ancora molti punti critici, come ad esempio lo status dei rapporti tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. L'Accordo di Venerdì Santo o Belfast Agreement è il perno della pace in Ulster e non può essere messo in discussione per Bruxelles. La posta in gioco è così alta che è possibile che i 27 leader facciano fronte comune su alcuni “principi” come lo status dei cittadini Ue e la situazione a Belfast, per tenere in scacco la controparte sulla "sostanza": gli accordi commerciali appunto.
La posizione di vantaggio di Bruxelles è tuttavia fragile. Infatti se 27 contro 1 può sembrare uno squilibrio di forze, e la volontà espressa da Londra per un rapido divorzio in maniera consensuale cozza contro l’attendismo degli euro burocrati, quest’ultimi non devono sottovalutare i segnali di avvitamento della politica interna britannica. Se arriva Boris Johnson sarà Hard Brexit.
Theresa May sinora si è dimostrata un’interlocutrice affidabile, pubblicamente impegnata a trovare una sintesi tra le diverse posizioni. Se il suo gabinetto dovesse indebolirsi o peggio cadere, difficilmente Londra saprebbe individuare un negoziatore altrettanto ragionevole.
Il Ministro degli esteri, Boris Johnson, tenace sostenitore del “Leave” è il convitato di pietra di questa tragicommedia. I 27 devono sperare che a dicembre, per l’inizio dei negoziati commerciali, non sia lui a scendere a Bruxelles. Perché questo accada, a Theresa May occorre solo una cosa: non tornare a casa dagli incontri con Bruxelles a mani completamente vuote.