Economia
June 13 2012
Quando si inseriscono in un qualsiasi motore di ricerca i termini “ormeggio”, “yacht” o “posto barca”, la maggior parte degli annunci che compaiono riguarda i porti italiani. Da qualche tempo, però, le offerte economicamente più ammiccanti e numericamente in crescita sono quelle in arrivo da Croazia, Grecia, Montenegro. Ma persino la Costa azzurra, un tempo inarrivabile per molti diportisti nostrani, ha buon gioco a mostrarsi tollerante e disponibile nei loro confronti.
Il motivo è semplice: i prezzi. A Saint-Tropez, la marina più costosa ed esclusiva di Francia, in alta stagione i proprietari di uno yacht di 55 metri pagano una tariffa giornaliera di 1.356 euro. Tanti? Certo, ma pur sempre poco più della metà rispetto ai principali competitors italiani come Capri (2.585), Porto Cervo (2.574) e Portofino (2.170). Lo spread tra i nostri moli e quelli stranieri sale ancora di più se consideriamo le mete adriatiche: a Paros e Santorini, in Grecia, si arriva a stento a 2.000 euro al giorno, per ormeggiare 24 ore sulla costa turca ne bastano tra i 1.500 e i 1.600 e lungo le insenature della ex Jugoslavia è possibile scendere ancora più in basso.
Cifre sorprendenti, che arrivano da una ricerca effettuata all’inizio di quest’anno da Engel&Völkers (società tedesca tedesca specializzata nell'intermediazione immobiliare e nautica di prestigio) e che, almeno in parte, contribuiscono a spiegare le parole pronunciate ieri da Flavio Briatore contro la pessima accoglienza che il nostro Paese riserverebbe a chi si presenta a bordo di una superbarca.
C’è senza dubbio del vero nelle parole di mister Billionaire anche quando afferma che questo trattamento, insieme ai maggiori oneri a terra (personale, accise e carburante, nonostante gli sgravi, pesano dal 10 al 20% in più sui costi di gestione di uno yacht ormeggiato sulle nostre coste), costituisce uno dei principali motivi di fuga dei diportisti italiani e stranieri verso altre mete. Soprattutto quando sostiene che se la fuga, secondo molti addetti ai lavori già in atto , dovesse continuare, sarebbe un bel problema per l’economia italiana.
Nel nostro Paese, secondo il Censis, la nautica da diporto muove infatti qualcosa come 5,1 miliardi di euro l’anno di ricavi diretti, ai quali vanno aggiunti almeno altri due miliardi di indotto turistico-alberghiero (che non riguarda solo i luoghi di ormeggio fisico ma anche i dintorni) e un impatto sull’occupazione nazionale pari a 1,916: significa in pratica che i posti di lavoro generati dal settore tendono a raddoppiare se si aggiungono gli addetti indiretti. L’abbandono delle nostre coste, infine, rischia di mettere in difficoltà anche la già pericolante cantieristica nostrana, che proprio sulle altre sponde del Mediterraneo vanta alcuni dei concorrenti più agguerriti.
Sulla questione della caccia a ladri ed evasori, altro tema caldo toccato da Briatore , la questione è invece molto più complessa: perché, anche se generalizzare è impossibile (oltre che sbagliato) scandagliare il mondo delle imprese italiane di leasing e chartering nautico significa imbattersi in una serie di meccanismi societari e contabili spesso oscuri. Lo sa bene il governo, che nel 2011 con il decreto Salva Italia ha puntato sul settore per riscuotere una parte cospicua dei 226 milioni di euro contabilizzati alla voce «abuso di intestazioni e interposizioni patrimoniali». Leggasi società di comodo, quelle che spesso schermano la reale proprietà delle barche.
Lo sanno bene anche gli uomini della Guardia di Finanza e i tecnici dell’Agenzia delle Entrate, che già a partire dall’inizio dell’anno avevano intensificato gli sforzi su questo fronte: solo nel corso dell’estate 2011 sono finite nel mirino 80 società tra Sardegna, Liguria e Campania, per le quali si ipotizzano occultamenti nell’ordine di alcune decine di milioni. E i controlli per la stagione appena iniziata potrebbero essere molti di più.
Che quello messo in atto non sia solo «odio sociale», peraltro, lo si capisce incrociando qualche altro numero: in Italia le imbarcazioni circolanti dai 10 metri in su sono 98 mila, gli italiani che potrebbero permettersi di mantenerle (almeno in base alle dichiarazioni dei redditi) meno di 72 mila. Gli yacht oltre i 24 metri di lunghezza intestati a persone fisiche, poi, sono appena 222, anche se quelli ormeggiati sulle nostre coste per buona parte dell’anno sfiorano quota 600 e le società che si occupano della loro gestione quasi 400: come se in media ciascuna di loro avesse in carico una o due supernavi al massimo.
A conti fatti non sembrano così azzardate le stime (le ultime sono dell’Associazione agenti e mediatori marittimi e del portale contribuenti.it ) che collocano le intestazioni fittizie tra il 54 e il 66% del totale.
Le tecniche ormai si sono affinate. La formula elusiva tradizionale (si intesta il proprio yacht a una società di comodo italiana o straniera dalla quale poi si affitta), che nel 2010 fa originò il sequestro preventivo proprio della barca utilizzata da Flavio Briatore, rappresenta solo la punta dell’iceberg. È vero che consente alla società armatrice, dietro la quale può nascondersi il reale proprietario, risparmi notevoli, dall’Iva in fase d’acquisto alla tassa di possesso, fino agli sgravi fiscali su carburante e stipendi. Così come consente, al pari del leasing, di parcheggiare l’imbarcazione fuori dal proprio perimetro patrimoniale rendendola inattaccabile da erario ed eventuali creditori. Ma si tratta anche del trucco più noto agli 007 del fisco, ai quali basta consultare libro soci e e bilanci del noleggiatore: se compaiono il nome dell’utilizzatore finale, dei suoi parenti o di un cittadino nullatenente, scatta l’allarme.
Per questo oggi va forte soprattutto la multiproprietà, che ha un criterio analogo a quello delle case-vacanza: si risparmia molto, sia al momento dell’acquisto che a livello fiscale e di mantenimento, ma si può godere del bene solo per un arco di tempo limitato. A meno che, naturalmente, i comproprietari esistano davvero e non si tratti anche questa volta di un coacervo di sigle offshore.