La crisi di Parigi (e Berlino) cambia tutto, anche se non sembra

Non confondiamo le acque. L’elezione nei 27 Stati membri dell'Unione Europea appena trascorsa decreta la netta vittoria delle forze già maggioritarie al governo di Bruxelles, ovvero i popolari del PPE e di Ursula Von der Leyen, che non solo hanno tenuto ma guadagnano seggi rispetto al 2019. Dunque, nessun terremoto e nessuna sconfessione della linea di governo.

Ma, detto questo, è anche vero che i partiti di estrema destra otterranno un numero record di seggi al Parlamento europeo e questo risultato, peraltro da Panorama già previsto, rappresenta un duro rimprovero al mainstream politico di Bruxelles, anzi più precisamente di quel che è stato soprannominato «asse carolingio» ovvero la linea politica Parigi-Berlino incarnata da Olaf Scholz ed Emmanuel Macron, i veri sconfitti della tornata elettorale europea.

Quanto a quest’ultimo, il giovane leader di Francia temeva già da tempo una sostanziale bocciatura da parte dei cittadini francesi, consapevole che l’idillio tra lui e il popolo fosse finito già da tempo, piombato tanto dalla percezione di insicurezza - che ha reso Parigi e le periferie francesi luoghi addirittura pericolosi dove vivere a causa dell’immigrazione incontrollata e degli episodi senza sosta relativi al terrorismo di matrice islamista - quanto dagli strascichi delle proteste dei Gilet Gialli che, seppure hanno diminuito le loro azioni, non per questo hanno smesso di essere i «ribelli di Francia».

A poco o niente è servito al presidente indossare l’elmetto e correre ad annunciare un impegno francese in Ucraina ancora più forte e diretto; anzi, forse questo ha convinto qualche indeciso dell’ultima ora ad abbandonare per un giorno il divano e correre a votare Marine Le Pen e il suo Rassemblement National (RN), vuoi per spirito pacifista vuoi per simpatie filorusse (che certo dalle parti di Le Pen e del codazzo di populisti alla sua destra non mancano).

Ed ecco che, puntuale dopo che Marine Le Pen lo ha doppiato nei voti, Macron ha sganciato l’arma suprema a sua disposizione per porre fine a una crisi politica: esercitando le prerogative che il ruolo da presidente gli concede, ha deciso di sciogliere anticipatamente l’Assemblea nazionale e sondare davvero il sentimento del popolo francese per capire chi desidera davvero all’Eliseo, e non soltanto a Bruxelles (come si potrà immaginare, le elezioni europee contano fino a un certo punto proprio come in Italia).

Le legislative sono un fulmine a ciel sereno per i francesi, e al contempo un’abile mossa strategica del capo dell’Eliseo. Già, perché ora più che mai per il governo è importante pesare l’effettivo consenso interno delle forze politiche. Soprattutto considerato che alle Europee, dove peraltro si vota a turno unico e con sistema proporzionale, l’astensione in Francia è stata pari al 48,2%, ovvero molto sotto la media nazionale del 74%, anche se in leggero rialzo sul 2019 (49,9%). Su mille persone con diritto di voto, a questo giro 159 hanno votato RN, 73 i macroniani, 70 i socialisti, 50 La France Insoumise, 37 i Républicains, 28 i verdi e la destra di Zemmour. Accadrà altrettanto il prossimo 30 giugno, alle legislative?

Di certo, Macron vuole evitare di presentarsi ai Giochi Olimpici – che iniziano il 26 luglio – come un presidente dimezzato. E per questo sono già iniziate le manovre per arginare l’ondata populista che rischia davvero di tumulare il progetto di «rinascita» inaugurato nel 2017 dal 25esimo presidente della Repubblica. Dopo essere arrivato alla vittoria con il suo partito En Marche, la «marcia» ha iniziato a rallentare durante il suo secondo mandato, e così il giovane Macron ha cambiato il nome del suo gruppo in Reinassance. Ma questa «rinascita» francese ha steccato in più occasioni. E il risultato di oggi in Europa lo evidenzia a sufficienza. Ciò detto, questo potrebbe anche non significare la fine dell’esperienza centrista in Francia.

Vero è che nelle campagne i voti si spostano sempre più a destra, e solo Parigi e le grandi città restano un faro della politica moderata. Così come è vero che per il 30 giugno e il 7 luglio centinaia di migliaia di dipendenti pubblici avevano già programmato di prendere le ferie per fare poi rientro a casa per le Olimpiadi di Parigi. Dunque, il malcontento è una variabile importante, ma consegnare il Parlamento a Le Pen è tutt’altra storia.

Già suo padre Jean-Marie Le Pen nel maggio 1997 divenne verde di rabbia dopo l'annuncio a sorpresa di Jacques Chirac, che allo stesso modo sciolse anticipatamente l’Assemblea nazionale. Le Pen parlò di una «truffa elettorale» e bollò l’operazione politica come un «colpo di Stato». Ma alla fine si dovette rassegnare, e quelle elezioni segnarono l’inizio della terza cohabitation - una «coabitazione» in cui la maggioranza parlamentare e il capo dello Stato in carica appartengono a schieramenti opposti - fra le forze del presidente neogollista Chirac e i socialisti di Lionel Jospin, che fu eletto primo ministro. Chirac aveva già sperimentato questo schema sotto la presidenza Mitterand. E né lui né Chirac dovettero cedere la presidenza o dimettersi. Anzi, la coabitazione è in effetti una formula tipica dei sistemi semipresidenziali.

Ragion per cui Jordan Bardella, capolista e presidente del Rassemblement National di Le Pen, che alle 20 di ieri aveva salutato il voto europeo come «risultato storico» e lo aveva battezzato come «il primo giorno dell’era post-Macron», deve aver masticato amaro quando alle 22 il presidente ha sciolto inaspettatamente il Parlamento. Certo, la «guardia stretta» di Macron – il primo ministro Gabriel Attal, i ministri Bruno Le Maire, Gérald Darmanin, Sébastien Lecornu, Stéphane Séjourné e Yaël Braun-Pivet – sono i primi a temere per il loro futuro, ma Marine Le Pen sa bene che adesso si apre un’altra sfida, assai più dura che quella per un seggio in Europa.

Se, infatti, una cosa è scegliere tra lei e Macron per la presidenza della Repubblica, altro fatto è eleggere un nuovo Parlamento dove a concorrere alla sfida sono più attori, in un sistema a doppio turno che contempla le alleanze e dunque premia la stabilità di governo. Come ha già sottolineato il quotidiano riferimento della gauche francese, Liberation, la sinistra ha così l’opportunità di battere un colpo, dopo i recenti tracolli e le numerose performance negative. La chiamata alle armi della gauche ha già assunto toni drammatici: «Sulla strada di queste inaspettate ma cruciali elezioni, la sinistra francese deve essere consapevole del suo ruolo storico: assicurare al popolo francese, come i suoi antenati repubblicani, che il fascismo non passerà». Tutto chiaro?

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