Non cambia la linea dell'Italia sul fronte anti-Isis. Sia ieri, al termine del comitato per l'ordine nazionale convocato subito dopo gli attentati di Bruxelles, che oggi in occasione dell'incontro con i capigruppo dei partiti presenti in Parlamento, il premier Matteo Renzi ha confermato l'atteggiamento prudenziale assunto già dopo le stragi parigine del 13 novembre: “no a reazioni impulsive”, “questo è il momento della calma”, “non è il tempo degli sciacalli ma nemmeno delle colombe”.
Come a dire: la condanna nei confronti degli attacchi terroristici è totale e l'Italia continuerà a mettere in campo tutte le misure di sicurezza e intelligence necessarie a contrastare “i nostri nemici”, ma senza scivolare nella bieca propaganda di chi, chiaro il riferimento al leader della Lega Nord Matteo Salvini che ieri ha diffuso fotografie di lui ritratto in vari punti di una capitale belga completamente militarizzata con in mano un cartello “io non ho paura” accompagnate dalla scritta “è ora di reagire. Ripuliamo le nostre città”, specula sulla morte di tante persone innocenti solo a scopo elettorale.
Ma è l'appello all'unità, sia nazionale che soprattutto europea, che Renzi ha voluto rilanciare con forza: “ci vuole un patto europeo per la libertà e la sicurezza: vada fino in fondo stavolta l'Ue: investa in una struttura unitaria di sicurezza e difesa”. Una struttura unitaria che non c'è mai stata e che molti paesi non vogliono per non dover cedere parte della propria sovranità. Nemmeno in cambio di maggiore sicurezza. Un'intelligence europea non esiste, come non esiste un esercito europeo, una polizia federale europea, una procura europea antiterrorismo. “Chi aggredisce le nostre città – ha spiegato il ministro della Giustizia Andrea Orlando – sembra avere un'idea di Europa più forte di quella che riusciamo a esprimere noi”. Mentre l'Isis attacca Parigi o Bruxelles per colpire l'intera Unione, l'Unione, che è tale solo sulla carta, è incapace di opporre una difesa comune.
Le marce unitarie con i capi di stato sotto braccio, il cordoglio universale espresso all'unisono, servono veramente a poco se poi quell'immagine non si traduce anche in azioni comuni concrete. Se ogni Paese continua a conservare gelosamente il segreto sulle proprie indagini, a mantenere ciascuno le proprie regole e le proprie informazioni per sé. Dopo Parigi, l'Italia fu tra i pochi Paesi che tentarono di far passare l'idea che fosse necessaria una maggiore integrazione tra i servizi di intelligence. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha ribadito anche ieri: “occorre affrontare questa sfida decisiva con una comune strategia”. Ma in questo senso le resistenze sono fortissime, soprattutto da parte delle magistrature nazionali. Tanto che, quando l'Ungheria, tra gli Stati maggiormente schierati sulla linea della durezza, fermò l'attentatore di Parigi Salah, arrestato poi in Belgio pochi giorni fa, lo lasciò andare perché non lo riconobbe.
“Ognuno pensa di fare meglio da solo”, dice ancora Orlando, una strategia evidentemente fallimentare. Succede infatti che mentre le reti terroristiche agiscono a livello sovranazionale, le nazioni europee lo fanno ognun per sé. E a volte senza essere unite nemmeno al proprio interno, come nel caso del Belgio, un paese spaccato in micro comuni, che parla tre lingue diverse e che ha sistemi giuridici diversi a seconda della zona. L'Italia, invece, ha sconfitto il terrorismo proprio creando leggi ad hoc e ha cominciato a infliggere colpi durissimi alla mafia quando Giovanni Falcone si pose il problema di come far comunicare meglio le diverse procure. Intuizione da cui nacque la direzione nazionale antimafia.
Da questo punto di vista non c'è dubbio che anche nella lotta contro il terrorismo islamico, almeno per quanto riguarda la prevenzione, l'Italia può vantare una certa esperienza. A rischio di essere tragicamente smentiti dai fatti, bisogna riconoscere che se finora il nostro Paese è stato risparmiato è anche perché il nostro sistema di intelligence evidentemente sta funzionando. Certo, contano probabilmente anche altri fattori: nessuno politico, a parte Salvini, ha mai chiesto di mettere fuori legge le associazioni islamiche e di chiudere le moschee. E mai, fino ad oggi, il governo ha ventilato l'ipotesi di ricorrere alle armi. Anche ieri Matteo Renzi è stato molto attento a non usare mai la parola “guerra”. Nonostante un attacco alle roccaforti dell'Isis in Libia da parte di Francia e Inghilterra sembri essere diventato sempre più imminente.
Non tutti, per la verità, condividono la prudenza di Renzi, convinto che un atteggiamento del genere, non aggressivo, abbia contribuito a tenere i terroristi lontani dalle nostre città. Con una lettera a Il Foglio, per esempio, Silvio Berlusconi ha espresso un'idea diversa. Che però non prescinde, anche in questo caso, da un forte appello all'unità a livello europeo. Per l'ex premier un eventuale intervento militare contro i terroristi islamici non può scaturire da iniziative dei singoli Stati. Piuttosto dovrebbe essere condizionato alla formazione di una coalizione che “sotto l'egida dell'Onu, riunisca Europa, Stati Uniti, Russia, Cina e paesi musulmani moderati e intervenga militarmente per eliminare la fabbrica della morte in Iraq e bloccare i conflitti in Sira e in Libia. Non esistono soluzioni alternative – spiega Berlusconi - quando si è chiamati in guerra bisogna combattere e vincere”.
Tuttavia, almeno fino a questo momento l'idea del premier sembra essere un'altra. Anche alla luce del fatto che “non risulta ad ora una minaccia specifica in Italia”, per lui è necessario continuare a investire in cultura e non in armi: “bisogna mettere denari veri sulle aree urbane – ha detto - Serve un gigantesco investimento in cultura, sulle periferie urbane, un investimento sociale. Continuo a pensare che l'aspetto educativo per sconfiggere le minacce nate e cresciute in europa sia fondamentale”.