Calcio, tv e campi da rifare. Ma quanto vale una zolla?
Ogni anno, puntuali come le tasse e la morte, arrivano le polemiche sullo stato pietoso dei campi di serie A e B. È successo, complici i primi freddi e le prime piogge, anche questa settimana: da Napoli a Torino, da Genova a Verona, impietose inquadrature televisive hanno sottolineato l’ennesimo spread tra il calcio italiano e gli altri campionati europei, dove tenuta e aspetto del manto erboso sono (quasi) sempre perfette.
Solo un problema estetico? Naturalmente no, anche se l’occhio vuole la sua parte. E infatti quando l’occhio è quello delle pay tv, che pagano profumatamente per trasmettere le partite in diretta, può anche capitare (come a Panorama.it risulta sia accaduto proprio nei giorni scorsi) che qualcuna di loro alzi la voce con la Lega Calcio, e che quest’ultima spedisca uno dei suoi agronomi di fiducia, Giovanni Castelli, a chiedere lumi alle società interessate. Le quali hanno risposto alla solita maniera, che qui proviamo a sintetizzare.
Rifare un campo da calcio è impresa onerosa, soprattutto in tempi di austerity. Con l’erba naturale si spendono circa 150 mila euro, ma sono necessarie almeno due rizollature l’anno. Costi ai quali vanno aggiunti altri 150-200 mila euro per le lampade necessarie ad accelerare il processo di fotosintesi: spesa insopprimibile, visto che parliamo di terreni da due/tre ettari che necessitano di tornare rigogliosi in una o due settimane.
Sul lungo periodo, spiegano gli assetti ai lavori, risulterebbe più economico e anche più efficiente adottare il cosiddetto «ibrido», il misto sintetico-naturale adottato in quasi tutti gli stadi inglesi, che resiste da 18 a 24 mesi e che proprio all’inizio di questa stagione ha fatto la sua comparsa anche a San Siro. Il problema sono i costi di avviamento: almeno 400 mila euro, che né i comuni né le squadre di calcio sono disposti ad accollarsi.
La verità è che, su questo come su molti altri fronti, il calcio italiano si muove solo in caso di avvenimenti estremi. Le eccezioni esistono e sono notevoli: dall’impianto di Novara, completamente sintetico, al nuovo Juventus Stadium. Ma il fatto che nelle grandi città il problema continui a presentarsi dimostra come alle sue radici ci siano cause di cui abbiamo già parlato: la vetustà degli impianti ricostruiti in occasione di Italia 90 e la mancanza di risorse dei comuni.
La questione non è solo estetica, ribadiamo. Ma anche sostanziale: perché chi gioca con i tacchetti su un fondo che al massimo andrebbe bene per il beach soccer rischia di rimetterci le articolazioni. E a quel punto le società di calcio, che necessitano di tutelare il loro unico asset di pregio (il contratto di prestazione sportiva, cioè volgarmente la proprietà dei calciatori) finiscono per alzare la voce a loro volta.
Era accaduto, sempre a quanto ci risulta, dopo Genoa-Roma del 21 ottobre, quando la distorsione dell’attaccante rossoblu Marco Borriello, unita alle sue dichiarazioni post-partita («si è alzata una zolla, è per questo che mi sono fatto male») avevano portato la società di Enrico Preziosi a valutare addirittura una causa civile contro Sportingenova, la spa che per conto del comune gestisce lo stadio di Marassi.
I conti erano presto fatti: Borriello ha un ingaggio annuo pari a circa 3 milioni netti, 1,4 dei quali sono a carico del Genoa (gli altri li mette la Roma, proprietaria del cartellino) e a causa dell’infortunio starà fuori per almeno 40-45 giorni, pari a circa un quarto del campionato. Da qui l’ipotesi di chiedere un risarcimento intorno ai 300 mila euro qualora fosse stabilito che la causa del crac era davvero il terreno di gioco.
La controversia è rientrata, anche perché Sportingenova è in fase di liquidazione e il rifacimento del prato dello stadio genovese era già stato programmato, proprio su pressing della Lega. Ma il problema resta e non pare circoscritto solo alla Liguria: sullo stesso tema sono recentissime le polemiche tra il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis e il sindaco Luigi Magistris per le condizioni in cui versa il San Paolo.
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