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November 22 2016
(di Nicola Graziani - AGI) - Un quarto di secolo di politica americana rovesciato in un giorno. Se Donald Trump dovesse mantenere la promessa di cancellare il Ttip nelle prime 24 ore di permanenza alla Casa Bianca, non salterebbe solo un accordo commerciale colossale. Salterebbe l'intera impostazione della politica estera americana plasmata all'indomani della fine della Guerra Fredda. Da quando, cioe', il crollo del Muro di Berlino fece pensare che la storia, sul Vecchio Continente, fosse ormai giunta al suo capitolo finale, mentre altri scenari e altre frontiere si aprivano ad ovest.
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Un processo più che ventennale, il cui compimento può essere considerato il discorso sullo Stato dell'Unione pronunciato da Barack Obama nel gennaio del 2015.
Obama: "Gli Stati Uniti hanno voltato pagina!"
Forte dei successi diplomatici dell'apertura con Cuba e dell'imminente accordo sul nucleare con l'Iran, Obama tratteggiò un quadro degli equilibri internazionali che aveva come fulcro la Partnership Transpacifica, concretizzatasi pochi mesi fa con il Trattato che ora Trump intende spazzar via.
Un'area di libero scambio, questa, che correva nelle intenzioni dei suoi ideatori lungo le due coste dell'oceano per mettere insieme le economie più dinamiche della regione. Unica eccezione, la Cina. Anzi, sarebbe stata proprio Pechino il vero obiettivo dell'operazione: isolandone la tumultuosa espansione si sarebbero create opportunità per quella statunitense come per quella sudamericana, della Corea del Sud e dei paesi dell'Emisfero Sud.
La dimostrazione più lampante che l'Europa e l'Atlantico non fossero più al centro dei pensieri di Washington, considerata la prima troppo sclerotizzata per poter trainare la ripresa mondiale e il secondo un lago le cui risorse apparivano esaurirsi a vista d'occhio, come i suoi banchi di pesce sempre più scarsi.
Il primo ad avere l'intuizione di guardare al Pacific Rim fu Bill Clinton, nell'ormai lontano 1993, con la Conferenza di Seattle. All'epoca si parlò giustamente di spostamento del focus della politica americana dall'Europa, vera e propria posta in palio della Guerra Fredda, in direzione di lidi che promettevano ampi margini di crescita economica. Un progetto rimasto inalterato nonostante gli anni abbiano visto momenti di crisi come quella che coinvolse le tigri asiatiche nella seconda metà degli anni '90, o l'esplosione successiva della bolla speculativa.
La tendenza non si è interrotta nemmeno sotto i due mandati di George W. Bush, che pure dopo l'11 Settembre ha concentrato quasi tutta la sua azione sul Medioriente. Decidere per il ritiro dal Ttip, quindi, sembra essere qualcosa di più profondo che non una semplice presa di distanze dall'era Obama.
Trump, nel nome della protezione della classe medio-bassa impoverita, torna a regalare nuovi spazi alla Cina, ponendosi nella scia tracciata molto tempo fa da Nixon, e riconduce ad un ruolo più marginale paesi che si erano dimostrati negli ultimi anni saldi alleati anche dal punto di vista politico.
Nasce quindi una vera e propria Trumpolitics, un nuovo ordine globale in cui Washington si sceglie una serie di interlocutori privilegiati scardinando equilibri consolidati. Nel Vecchio Continente continuano ad aspettare la data in cui il Presidente americano incontrerà i vertici comunitari. Al tempo stesso Nigel Farage è stato scelto come ambasciatore britannico presso la Casa Bianca (il Foreign Office non ha gradito, ed ha bocciato l'idea).
Ma è soprattutto il rapporto con Putin che si pone come l'asse portante della nuova struttura. La Russia può controbilanciare la crescita cinese e garantire, almeno questa è la speranza, una gestione concordata delle crisi internazionali, sul modello siriano. E qui il precedente nixoniano non vale più.
Resta fuori dal puzzle la tessera europea. L'Ue non sembra rientrare nei progetti della nuova amministrazione. Eppure molti dei suoi stati membri sono anche parte integrante della Nato, e la cosa non è secondaria.