Economia
March 01 2016
Il tormentone del canone Rai in bolletta non è ancora risolto: difficilmente il decreto attuativo riuscirà a superare il ginepraio in cui ci si è infilati. Non a caso negli altri Paesi (Francia, Germania, Regno Unito), dove pure è prevista un'imposta per il finanziamento del servizio televisivo pubblico, a nessuno è venuta in mente di riscuoterla con la bolletta dell'energia elettrica.
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Forse si sono accorti che il settore della fornitura dell'energia elettrica dal 2007 è stato liberalizzato e tutti i clienti possono scegliere - e cambiare, anche in corso d'anno e ogni volta che lo ritengono - il proprio fornitore. Queste e tante altre complicazioni non hanno sfiorato la mente di chi ci governa, che del resto non ha avuto ritegno, anziché approvare una nuova legge ad hoc, a inserire le nuove previsioni nel vecchio regio decreto legge numero 246 del 1938 ("Disciplina degli abbonamenti alle radioaudizioni" emanato da Vittorio Emanuele III, "per grazia di dio e per volontà della Nazione Re d'Italia e Imperatore d'Etiopia").
È chiaro che ai tempi dell'Impero d'Etiopia la situazione era un po' diversa: non c'era un settore del mercato elettrico complesso e articolato, con utenti del mercato di maggior tutela (Enel servizio elettrico) e quelli che hanno optato, invece, per quello libero (per esempio Enel energia, Sorgenia o Acea).
Ovvio quindi che l'Antitrust abbia fissato molti paletti alla soluzione escogitata (trasparenza, distinzione degli importi, ecc.) e tanti altri ne stiano venendo alla luce. Ma non si tratta solo di questioni tecniche. L'Antitrust, infatti, ha anche precisato che se da un lato il servizio pubblico può essere finanziato da una combinazione di risorse pubbliche e proventi commerciali, dall'altro occorre "evitare che le risorse pubbliche siano utilizzate per il finanziamento di attività commerciali, situazione che determinerebbe un'evidente distorsione concorrenziale".
Cosa non facile, perché la Rai è un "soggetto ibrido" che coniuga obiettivi pubblicistici e commerciali a loro volta finanziati sia da risorse pubbliche (il canone) sia da attività commerciali. La Rai, inoltre, a differenza delle altre tv europee si finanzia con un ricorso alla pubblicità molto più alto: la Rai viaggia sul 46 per cento, contro il 13 della tv pubblica tedesca Zdf-Adr, mentre la Bbc addirittura non può fare pubblicità.
L'Antistrust ha quindi auspicato una radicale riforma della Rai verso "un assetto societario e organizzativo moderno" fondato su regole che consentano di "garantire l'efficienza e assicurare l'effettività del finanziamento pubblico" (oggi tutt'altro che scontata), in modo da assicurare "la concorrenza dei mercati televisivi e il rispetto del pluralismo dell'informazione". Ha poi rincarato la dose segnalando le perplessità della Corte dei conti sulla gestione finanziaria della Rai.
Se tanto l'Antistrust quanto la Corte dei conti dubitano che la Rai di oggi possa gestire correttamente gli introiti del canone, viene spontaneo chiedersi se in questa situazione il cittadino non possa decidere, con una protesta fiscale, di adire al riguardo i giudici. I motivi di illegittimità della trovata governativa sono già infatti molteplici anche senza considerare, per ora, quelli ulteriori che emergeranno dall'emanando decreto. Li riepilogo.
PRIMO: se il canone Rai è un'imposta e non un tariffa per un servizio, come ha stabilito la Consulta, si configura però come un'imposta "espropriativa", dal momento che chiedere 100 euro ogni anno per un televisore vuol dire che dopo pochi anni di applicazione l'imposta ha totalmente esorbitato, nella normalità dei casi, il valore del bene tassato.
SECONDO: siccome il canone è un'imposta e non una tariffa, è illegittimo pretenderne il pagamento con una bolletta destinata a coprire il costo di un servizio divisibile; altrimenti, per l'esigenza di evitare l'evasione, anche un Comune potrebbe chiedere il pagamento dell'Imu nella bolletta.
TERZO: è draconiano e sproporzionato imporre l'obbligo di autocertificare sotto responsabilità penale di non possedere un televisore; nessuna sanzione penale, infatti, colpisce chi non dichiara fino a 50 mila euro nell'ambito Irpef.
Per portare la questione davanti ai giudici basterebbe, al momento dell'addebito delle prime rate del canone nella bolletta di luglio, pagare 20 o 30 euro in meno rispetto alla somma richiesta e allegare una dichiarazione di non essere interessato al servizio Rai (è un servizio divisibile: non è come l'illuminazione stradale) al punto di essere disposto a farsi criptare il segnale. A quel punto l'amministrazione manderà un avviso di accertamento che potrà essere impugnato davanti alla Commissione tributaria anche attraverso un ricorso "collettivo" (che permette di abbattere i costi del giudizio). Si tratterebbe quindi di una sorta di class action tributaria (recentemente legittimata dalla Cassazione) e una volta avviato il giudizio si potrà così anche sollevare una questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta.