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August 02 2023
La sera del 16 luglio scorso, dopo le 23, dal pavimento sotto uno degli uffici riservati agli autonoleggi dell’aeroporto Vincenzo Bellini di Catania si è sviluppato un incendio a seguito del quale l’area colpita non sarà probabilmente riaperta prima del 15 agosto. Ironia della sorte, stando ai dati di traffico, il 16 luglio per lo scalo catanese non era una giornata qualsiasi, ma quella che ha segnato il record storico con 46.000 transiti. Questo è uno scalo abituato a modulare il traffico aereo a causa della presenza dell’Etna, che quando erutta blocca i voli, ma è anche quello che in pochi anni è passato da 5-6 milioni di passeggeri a 10,5 senza veder concluso quel piano di crescita delle infrastrutture previsto dal Contratto di programma stipulato tra la società di gestione Sac e l’Enac, l’Ente nazionale per l’aviazione civile. Non è un fatto banale: durante la pandemia diversi scali italiani hanno approfittato per portare a compimento gli investimenti, come Fiumicino e Bergamo, o per programmarli come Malpensa T2, ma Catania no.
Quel contratto di programma non si sa fino a quale fase sia stato realizzato e si paga anche la decisione, poco lungimirante, di aver chiuso e abbandonato il vecchio terminal che oggi sarebbe servito, eccome! Nel 2007, con l’apertura della nuova aerostazione, quella vecchia che era soltanto da adeguare dal punto di vista impiantistico fu invece abbandonata e oggi è inutilizzabile. E anche nel 2012, dopo la revisione del contratto di programma, non fu presa la decisione che oggi avrebbe salvato l’alta stagione del Bellini. E nonostante dopo l’incendio l’Aeronautica Militare abbia approntato rapidamente una tensostruttura climatizzata, l’Arma non ha certo potuto installare nastri bagagli né sistemi di informazione audio, con il risultato che a Catania si sono viste scene che neppure nel peggiore degli scali esotici, con gente che improvvisava chiamate a voce alta del tipo “Per Milano da questa parte!” Anche perché la gestione dell’emergenza è stata fatta emettendo bollettini per i naviganti (Notam) del valore di sole 24 ore, per poi aggiornarli di volta in volta, con il risultato che le compagnie, non sapendo prima se avessero potuto atterrare a Catania o a Trapani, Palermo e Comiso, non potevano, a loro volta, programmare i voli né avvertire i passeggeri, fino all’ultimo momento. Come dimostra il fatto che taluni operatori hanno continuato a vendere i biglietti da e per Catania anche dopo l’evento. Da quanto si legge sulla stampa pare che l’origine dell’incendio sia stata causata da un sovraccarico elettrico o da un corto circuito. Può accadere, soprattutto perché quegli uffici degli autonoleggi sono stati realizzati in quel luogo proprio per mancanza di spazio altrove, e qui si torna a fare riferimento al piano di sviluppo evidentemente non completato in tempo per reggere la ripresa dei viaggi e la crescita che il comparto aereo ha mostrato fin dalla fine del 2021. E fa rabbia che per un’area danneggiata dalle fiamme non più grande di ottanta metri quadrati, dove con qualche estintore si sarebbe potuto limitare l’incendio (a proposito, erano presenti, raggiungibili ed efficienti?), a causa del fumo sia stato necessario ripulire tutto l’impianto di condizionamento e ventilazione dell’intero edificio del terminal (torre uffici e partenze), che non potrà essere riaperto fintanto che la Asl non rilascerà il certificato di salubrità dell’aria. Di fatto, mentre scriviamo, all’interno c’è ancora un odore pungente.
Un altro fattore critico ha però riguardato la gestione dell’emergenza: pare che a intervenire per primi, su chiamata al numero unico delle emergenze, non siano stati i vigili del fuoco aeroportuali, bensì quelli del centro di Catania città. Non si sa, al momento, se sia intervenuto o sia stato attivato il presidio antincendio della Sac. Insomma, se così fosse, il piano d’emergenza aeroportuale (Pea) sarà probabilmente da riscrivere. Ma soprattutto, sarà da ridefinire e, stavolta da attuare, un programma di sviluppo dello scalo coerente con la crescita dell’aviazione commerciale prevista da qui al 2030 e quantificata in un 12% per il quale, altrove, si è già finito di lavorare.