Con il capitalismo della sorveglianza, se l'algoritmo non coglie la libertà... la si cambia
Negli ultimi giorni il dibattito dei social network è girato intorno all'orologio di pregio di un candidato alle elezioni locali. Invidia sociale, egualitarismo radicale, polarizzazione hanno provocato l'ennesima eruzione di abbrutimento da vita digitale. L'algoritmo ha svolto il suo perfetto lavoro nell'estendere all'infinito un dibattito cannibale. Specchio della società di oggi e domani.
«L'algoritmo è totalitario, le crypto valute sono libertarie», ha dichiarato qualche tempo fa il miliardario tech di orientamento conservatore Peter Thiel. Sul fatto che le crypto valute possano essere uno strumento di libertà sarà la storia del prossimo futuro a raccontarcelo mentre sulle distorsioni alle libertà provocate dagli algoritmi digitali ci sono pochi dubbi.
Oggi ci muoviamo nel mondo del «capitalismo della sorveglianza», un termine coniato da Shoshana Zuboff, ex professoressa dell'Harvard Business School. Nel suo libro sul capitalismo digitale Zuboff descrive e analizza una nuova forma di capitalismo creata da Google e perfezionata da Amazon e Facebook. Il capitalismo della sorveglianza risucchia dati personali dagli individui e li analizza con sofisticati algoritmi per predire il loro comportamento. L'obiettivo, ovviamente, è quello di selezionare beni e servizi su misura e in base alle preferenze individuali. E fino a qui non c'è da sorprendersi né scandalizzarsi , è semplice pubblicità. Tuttavia, la realtà più profonda del capitalismo della sorveglianza, è ben più inquietante. I signori dei dati non cercano semplicemente di capire cosa ci piace; ora stanno cercando di farci piacere quel che decidono sia opportuno, ovviamente con la massima discrezione.
Il capitalismo del XXI secolo non solo è assolutamente a favore della sorveglianza, ma è anche fin troppo consapevole della sua invasione di campo nella vita privata e pubblica. E non è certo difficile prevedere che questi ingombranti interessi aziendali finiranno con lo sfruttamento dei dati mirato alla manipolazione degli individui, spingendoli a pensare e ad agire in un certo modo. Magari i giganti digitali cercheranno solo di spingere gli utenti ad acquistare certi prodotti, uniformati al politicamente corretto, e non altri. Ma cosa accade quando i prodotti sono politiche o ideologie? E come faranno le persone a sapere quando qualcuno le sta manipolando? Se un'azienda con accesso a dati privati dovesse decidere che il progresso richiede la soppressione delle opinioni discordanti, sarebbe fin troppo semplice identificare i dissidenti, anche se costoro non avessero pronunciato una sola parola pubblicamente. Anzi, la loro voce rischierebbe di venire del tutto censurata.
Certo, Twitter, azienda con 330 milioni di utenti al mondo, soprattutto tra le élite mediatiche e politiche, non è un servizio regolato a livello pubblico; non ha alcun obbligo legale di offrire la libertà di parola a tutti i suoi utenti. Ma immaginate in che modo verrebbero influenzate le comunicazioni di tutti i giorni se i social media e gli altri canali digitali da cui molti oramai dipendono – Twitter, Gmail, Facebook eccetera – decidessero di bloccare gli utenti le cui idee religiose o politiche li facessero apparire troppo bigotti agli occhi dei commissari digitali e della loro ideologia. D'altronde i social network hanno già messo al bando Donald Trump, che al momento della disconnessione era ancora il Presidente in carica degli Stati Uniti. Atto di massima arroganza del capitalismo woke. Ma l'elemento più inquietante che emerge con la crisi pandemica è l'accoppiamento del potere digitale con la burocrazia di Stato. I governi sono oramai in grado di tracciare, elaborare, controllare quanto le piattaforme social. Un effetto potenzialmente devastante per la privacy dei cittadini e perché porta la burocrazia direttamente dentro la vita dei singoli individui. Come nel caso del green pass, il futuro è costellata dalla archiviazione e conservazione delle nostra tracce digitali da parte dei governi. Alla sorveglianza dei giganti digitali conseguirà, ed è già in atto, quello ad opera degli Stati. La nostra opinione pubblica è già ampiamente condizionata da ciò che gli algoritmi ci mostrano o meno, da chi è ammesso o meno sul piano valoriale e lessicale a partecipare al dibattito dei social network.
La tecnologia facilita la vita di tutti, sia nel consumo che nella comunicazione, ma è cresciuto il rischio negli ultimi anni di uno scambio tra crescita del consumo, dell'informazione e della comunicazione e la restrizione di alcuni aspetti della libertà personale. Se a questo elemento aggiungiamo una tendenza sempre più incline al dirigismo sul piano industriale in nome dell'economia verde e un'aggressività fiscale crescente nei confronti della proprietà lo scenario assume tinte ancora più dispotiche. Società fondate sul consumo immediato e l'intrattenimento, mercato controllato da giganteschi monopoli e oligopoli, proprietà privata disincentivata e redistribuita, restrizioni fondate sull'emergenza sanitaria e ambientale, tracciamento e controllo pervasivi, forte ingerenza dello Stato e della burocrazia nella vita personale ed economica. Siamo davvero certi di volere un futuro così?
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