Dal Mondo
December 10 2021
Nel mondo dell'automobile non c'è modo di trovare una visione corale tra chi vorrebbe accelerare la conversione all'elettrico e chi invece pensa che questa mossa causerà la fine della mobilità popolare e causerà licenziamenti di massa. Ma questa divisione favorisce i più radicali tra gli euro-ecologisti finti, ovvero coloro che soffiano sulla riduzione dell'inquinamento ma in realtà spingono per l'esplosione di un'industria parallela e immatura che fagocita grandi risorse finanziarie.
Carlos Tavares, numero uno di Stellantis, il 6 dicembre scorso è stato chiaro nel ribadire che imporre una transizione troppo rapida verso l’elettrico costituisce una minaccia per troppi posti di lavoro e rischia di compromettere la qualità dei veicoli prodotti. Il motivo è ovvio quanto ignorato da europolitici e fanatici del green: i produttori di automobili devono combattere i costi di costruzione dei veicoli elettrici che ancora per una decina d'anni almeno saranno più elevati di quelli delle auto convenzionali.
Governi e investitori (banche, fondi, finanza in genere), vogliono invece che le aziende automobilistiche affrettino la transizione facendo finta di ignorarne i veri costi, che secondo il manager portoghese, ma anche secondo il suo omologo giapponese a capo di Toyota, superano di molto ciò che l’industria automobilistica può sostenere.
E poi c'è il fatto, ineluttabile, che ancora manca una filiera dell'elettrico in grado di sostituire batterie esauste a costi accettabili, riciclare quelle vetuste, aggiornando veicoli che a livello tecnologico invecchiano molto più rapidamente di quelli con motore endotermico. Tavares qualche tempo fa aveva dichiarato: «È stato deciso di imporre un’elettrificazione che comporta costi aggiuntivi del 50% rispetto a un veicolo convenzionale, ma non c’è modo di trasferire questo aumento al consumatore finale perché la classe media non sarà in grado di pagare».
Un giudizio lungimirante e logico, che porta alla considerazione che di fatto le possibilità per le case sono soltanto queste: alzare i listini e accontentarsi di vendere meno automobili, ma sacrificando i lavoratori e comunque cercando di ottenere una marginalità maggiore da ogni unità messa sul mercato (quindi risparmiando sulla qualità dei componenti e sulle dotazioni – ergo far costare di più dando meno), oppure accettare margini di profitto ancora inferiori agli attuali e quindi dover comunque ridurre il personale.
Il suo discorso non fa una piega né sul piano matematico né su quello sociale, tanto che simili parole vorremmo ascoltarle dalla bocca di qualche ministro. Invece nulla, perché oltre ai limiti tecnologici ciò che certa politica ignora sistematicamente è anche il fattore tempo: i produttori hanno ancora bisogno di anni per garantire che la nuova tecnologia funzioni e possa sostenersi, mentre secondo Tavares perseguendo la via di Bruxelles sarà necessario aumentare la produttività del 10% l'anno in un settore nel quale non si è mai riusciti ad aumentarla oltre il 3%. Significa, in parole chiare, che chi non riuscirà in questa impresa fallirà e uscirà dal mercato producendo macelleria sociale.
Aveva tentato di fargli eco anche Herbert Diess, Ceo del gruppo Volkswagen, quando ai primi di novembre aveva detto che 30.000 posti di lavoro sarebbero stati a rischio se il gruppo non sarà abbastanza rapido nel convertirsi a produzioni elettriche e a fornire ai clienti auto a guida autonoma, unica via rimasta oggi per migliorare l'esperienza di viaggio, stante che tra limiti di velocità, impossibilità di usare i telefonini e limitazioni ai consumi guidare è diventata un'attività lontana dall'essere piacevole.
In quell'occasione lo avevano immediatamente messo vicino alla porta d'uscita perché il rischio per Volkswagen era piuttosto quello di non vedere gli 89 miliardi di euro di investimenti che nei prossimi cinque anni dovrebbero servire per la conversione delle fabbriche europee. Ad attaccare più di tutti Diess era stato lo Stato della Bassa Sassonia, azionista pubblico del gruppo rappresentato da Hans-Dieter Pötsch, che non è riuscito a cacciarlo ma che ha ottenuto di rivedere al ribasso i poteri del manager costringendolo a misurarsi in modo più collegiale con altri nuovi membri del Board di prossimo inserimento e ponendo una limitazione delle deleghe attuali in carico al manager.
In particolare sale di grado il capo del marchio Volkswagen, Ralf Brandstätter, che assumerà anche la guida delle attività in Cina dalla prossima estate, che nel suo attuale ruolo sarà rimpiazzato da Thomas Schäfer, ora a capo di Skoda. Come dire, o credi anche tu ciecamente in questa corsa al salvataggio del mondo, oppure te ne vai a prescindere dai risultati conseguiti. Contro Diess c'era anche la sindacalista di origine italiana Daniela Cavallo, a capo del Consiglio di fabbrica, che lo ha accusato pubblicamente di fare terrorismo sul piano occupazionale.
E a far arrabbiare lo Stato della Bassa Sassonia fu proprio un post pubblicato sul profilo Linkedin del manager, nel quale annunciava: «La prossima Golf non deve essere una Tesla, non deve venire dalla Cina, deve nascere di nuovo a Wolfsburg: la Trinity!», facendo chiaro riferimento al nuovo modello elettrico che sarà prodotto nella storica fabbrica Volkswagen. Quindi commentando: «Non vedo l’ora di affrontare questa importante competizione insieme ai dipendenti di Wolfsburg. I posti di lavoro che esistono oggi saranno sicuramente meno nei prossimi 10-15 anni. Soprattutto nell’amministrazione a livello di Gruppo, ma anche nella produzione e nello sviluppo. Verranno aggiunti nuovi e diversi lavori».
Evidentemente la verità, ma troppo scomoda per essere detta pubblicamente dalla voce più importante del costruttore tedesco. «Cari dipendenti» aveva concluso Diess, «voglio che i vostri figli e nipoti siano ancora in grado di avere un lavoro sicuro con noi a Wolfsburg nel 2030». Apriti cielo. La realtà tuttavia mostra che stanti le attuali tendenze del mercato, seppure sia reale una forte tendenza all'aumento del numero di veicoli elettrici venduti, prodotta dal continuo lavaggio del cervello che viene fatto sui consumatori, i mezzi a batteria rimangono una nicchia e secondo gli analisti di mercato di Ernst&Young «Electric Vehicle Country Readiness» sono la scelta del 10,5% di chi starebbe valutando l'acquisto di una nuova vettura, che invece per oltre il 40% oggi sceglierebbe una motorizzazione idrida. Con tali numeri le vendite di mezzi elettrici raggiungerebbero quelle delle auto con altri sistemi di propulsione non prima del 2033.
Una buona notizia arriva invece dal Giappone: il 14 dicembre la Toyota celebrerà il suo «Battery Day» e pare che finalmente saranno annunciate le tanto attese batterie allo stato solido. Il colosso guidato da Akio Toyoda sostiene da sempre che parlare soltanto di elettrico sia insensato e industrialmente pericoloso, ma anche che per raggiungere l'obiettivo della neutralità sulle emissioni sia necessario investire maggiormente in ricerca e sviluppo. Dunque martedì prossimo alle 7 del mattino ora italiana (le 15 a Tokyo), Toyoda in persona porrà ancora una volta il punto sullo stato di fatto della transizione, e c'è chi ipotizza un annuncio sulla nuova serie di vetture “bZ”, dalla quale potrebbero nascere i nuovi modelli destinati al mercato europeo. Per seguire l'evento: Media Briefing on Battery EV Strategies – YouTube e anche https://youtu.be/qwLaXENG-Zc