Politica
August 09 2024
per case a costi accessibili.Torniamo a parlare delle occupazioni abusive delle case popolari. Partiamo da fatti di cronaca che riguardano la città di Roma dei quali si è occupato Il Messaggero riportando dati che ci dicono tutte cose piuttosto sconfortanti. La prima è che le occupazioni di queste case non sono in calo ma sono in crescita, ogni mese undici casi; l’altra cosa riguarda il fatto che molti edifici sono fatiscenti e senza agibilità e un rogo esploso in uno di questi ha fatto dire agli abitanti che rischiano di finire come a Scampia; l’ultimo fatto riguarda un’operazione di sgombero di 25 appartamenti e l’abbattimento di due immobili. Tutto sempre nella Capitale.
Sarebbe ingiusto fermarsi a Roma quasi a volerne fare un esempio negativo nella gestione del problema annoso, e mai preso con le «pinze» adatte, delle case popolari che è un problema, invece, nazionale e che riguarda l’assenza di un piano egualmente nazionale di edilizia popolare e di rigenerazione delle periferie sul modello di ciò che il governo ha deciso a Napoli al quartiere Caivano. Ecco, quello che è stato fatto lì andrebbe fatto in tutti i quartieri degradati e periferici che di solito sono luoghi dove sorgono le case popolari.
La questione di questo tipo di abitazioni è certamente anche di ordine pubblico e di rispetto della legge, sia nel senso della presenza della microcriminalità sia della macro-criminalità (vedi Caivano e vedi le Vele di Scampia) presente e operante in quei territori obbligando i cittadini a vivere in un clima di paura e di ricatto (vari i racket accertati come operanti sul territorio).
In Italia, secondo i dati di Federcasa, ci sono indicativamente 800 mila alloggi popolari e 2,2 milioni di persone che ci vivono. Di queste,circa il 10 per cento non sono assegnate ma, secondo altre fonti, sono molte di più e si arriva quasi al 20 per cento.
C’è una richiesta di case popolari, nel nostro Paese, che vede 650 mila domande di assegnazione da parte delle famiglie in lista d’attesa. Quindi manca qualche centinaio di migliaia di case popolari. Del resto, stando ai dati Ocse, questo tipo di abitazioni sono il 3,8 per cento del totale in Italia, mentre nei Paesi Bassi rappresentano il 37 per cento, in Danimarca il 21per cento, nel Regno Unito il 17,6 per cento e in Francia il 16,8 per cento. Prendiamo proprio questa nazione a paragone perché non possiamo paragonare il nostro welfare a quello dei paesi scandinavi. Ma possiamo paragonarlo, appunto, alla Francia.
Ebbene, la foto impietosa che ne emerge è che, mentre Oltralpe ci sono circa 16 case ogni 100 abitanti, da noi ogni 100 abitanti ci fermiamo a quota quattro abitazioni popolari. Siamo il Paese con il più basso numero di case popolari in Europa. Ovviamente non è che vogliamo richiamarci alle teorie dei giuristi «de noi artri», tipo Ilaria Salis per cui, vista la situazione che abbiamo descritto, ciò porta a un’eliminazione automatica dello Stato di diritto e a una conseguente libertà di occupazione come atto di giustizia.
Pensate chi ci rappresenta nel Parlamento europeo...
No, la questione è un’altra. È che dopo il Piano Fanfani degli anni Cinquanta, che costruì circa due milioni di unità immobiliari, non c’è più stato un piano di tali dimensioni e soprattutto concepito con criteri architettonici che rendevano tali alloggi degni di questo nome. Se oggi andate a visitare qualche casa popolare del Piano Fanfani, considerando gli anni in cui sono state costruite, comunque notate una differenza qualitativa importante rispetto alle «popolari» costruite dagli anni Settanta in poi, frutto di quella ideologia folle di sinistra che ha creato, di fatto, alcuni dei quartieri più problematici in Italia.
Visto il crescente numero dei poveri nel Paese, ed essendo quello della casa uno dei diritti fondamentali riconosciuto dalla comunità nazionale e internazionale, è evidente che la percentuale di case popolari è indecente e insostenibile. Per questo sosteniamo che il problema andrebbe affrontato in sede nazionale con un adeguato piano di edilizia pubblica popolare, forse accompagnato da un piano di rigenerazione delle periferie che rendesse a questi cittadini l’orgoglio di vivere nei loro quartieri finalmente considerati, curati e manutenuti come tutto il resto della città.