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July 22 2013
Esterno sera, cena con amici. La domanda mi ha colto alla sprovvista, ero convinto di essere sul più bello di un ragionamento assai fino sulla questione kazaka. «Ma lei sa che cosa è la 104?» ha detto il mio interlocutore, un non più giovane imprenditore brianzolo del tessile. Confessata l’ignoranza, m’ha spiegato che la 104 è una legge («Nobilissima» ha precisato) che concede tre giorni al mese di permesso ai lavoratori che assistono un parente malato. Ha aggiunto che diversi dipendenti usufruiscono del permesso e che oggi, tra ferie e malattie, è in ritardo su una consegna con il rischio di perderla senza poter far nulla «perché nessuno vuole rinunciare o spostare la partenza per le vacanze».
Un altro imprenditore, attivo nel settore turistico, si è intromesso e ha allargato le braccia: «E io che devo dire? Oggi ho proposto a una dipendente assunta con contratto stagionale di allungare il contratto per due mesi perché abbiamo prenotazioni fino a oltre settembre. Bene, mi ha risposto che non può. Perché? Perché altrimenti matura troppi mesi di lavoro e perde il diritto a riscuotere l’assegno di disoccupazione per i restanti mesi dell’anno».
Certo fa un certo effetto leggere poi le statistiche Ocse che certificano come in Italia nel 2012 la disoccupazione giovanile sia arrivata al 35,3 per cento e che un giovane su due abbia un lavoro precario, addirittura il 52,9 per cento nella fascia tra i 15 e i 24 anni (erano la metà nel 2000). Insomma, sulla disoccupazione qualcuno di sicuro ci marcia e i dati andrebbero forse corretti tenendo conto di alcune «deviazioni» (tutto ciò sia detto senza voler in alcun modo negare la piaga).
Non voglio divagare, adesso parliamo anche del caso Calderoli e della questione kazaka. Quel che voglio dire è che c’è uno scarto, assai evidente, fra quello che interessa e preoccupa i cittadini e la gerarchia delle notizie presentate da televisioni e giornali. Le priorità non combaciano: il sacrosanto intervento del presidente Giorgio Napolitano dopo le scempiaggini dette da Roberto Calderoli nei confronti del ministro Cécile Kyenge fatica a rimanere nella mente di chi è quotidianamente alle prese con la crisi più devastante dalla Seconda guerra mondiale. Anche perché sfugge qual è il fine dell’offesa (non potendo azzardare alcuna nobiltà del ragionamento) pronunciata dall’esponente leghista: a quale calcolo politico obbediva l’invettiva? Mistero assoluto.
Ma Calderoli è fatto così. È un politico un po’ rozzo, istituzionalmente un tantino selvaggio.
Per dire: da ministro della Semplificazione cercò di semplificarmi la vita e chiese ufficialmente a Silvio Berlusconi «risposte immediate e risolutive» nei miei confronti. In breve lui, ministro della Repubblica, sollecitò al presidente del Consiglio il licenziamento del direttore di un periodico a causa di un articolo su Panorama che profeticamente squarciava il velo sul «cerchio magico» intorno a Umberto Bossi.
Calderoli all’epoca era bossiano, ora con il nuovo corso maroniano ha evidenti vuoti di memoria. L’indole è però rimasta integra: è un barbaro, politicamente s’intende.
Per tre giorni tg e quotidiani hanno ritenuto che le offese di Calderoli fossero la notizia più rilevante insieme a quella del pasticcio kazako legato all’espulsione di moglie e figlia di Mukhtar Ablyazov, un dissidente dell’ex repubblica sovietica che avrebbe però anche truffato nel suo paese qualcosa come 15 miliardi di dollari. Il ritornello che si è sentito – come nel caso Calderoli, che è vicepresidente del Senato – è stato quello della richiesta di dimissioni, per il caso Ablyazov, del ministro dell’Interno e vicepremier Angelino Alfano. Che è poi lo stesso ritornello che sentiamo ogni settimana per le materie più disparate: un giorno tocca al ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, un altro a quello dello Sviluppo economico
Flavio Zanonato, un altro ancora al capogruppo del Pdl Renato Brunetta oppure al commissario dell’Ilva Enrico Bondi, passando per le dimissioni in gruppo di tutti i parlamentari del Popolo della libertà.
Come se le risse e le dimissioni risolvessero i problemi. Magari fosse così. L’Italia dovrebbe riscoprire piuttosto il valore e la sacralità dell’assunzione di responsabilità, un principio al quale dovrebbero uniformarsi politici e burocrati. In base a questo principio io sostengo che dovrebbe essere Alfano, autonomamente, a fare un passo indietro, se non altro per avere fallito nella scelta dei suoi collaboratori più vicini (a cominciare dal capo di gabinetto) al Viminale.
Se Alfano dovesse giungere a queste conclusioni, al netto delle colpe riconducibili alla catena di comando, bene farebbe a rimettere il mandato nelle mani di Enrico Letta, al quale non manca una collaudata capacità di persuasione (come nel caso di Josefa Idem) nell’accettare o far in modo di respingere le dimissioni di un suo ministro. Le richieste di togliere il disturbo sporcate da miseri calcoli politici, come nel caso di Repubblica, lasciano invece il tempo che trovano perché muovono dalla solita cantilena antiberlusconiana in virtù della quale Alfano è un burattino del Cavaliere il quale a sua volta è amico dello schifoso dittatore kazako. Peccato che, come vi raccontiamo con dovizia di particolari a pagina 62, il vero amico di Nursultan Nazarbayev è il professor Romano Prodi. E sarà uno spasso leggere a questo punto le cronache e i commenti indignati che alla luce delle rivelazioni di Panorama si leveranno dalle parti di Repubblica e del blocco «democratico» che controlla gran parte dell’informazione in questo Paese.
Ora, tutto ciò premesso possiamo dedicarci al problema centrale e irrisolto che riguarda l’Italia e che tanto giustamente preoccupa i miei amici imprenditori e cioè: come riparte il Paese?
L’inasprimento delle tasse ha avuto come conseguenza minori introiti, eppure si discute ancora se intervenire sui balzelli locali. I consumi sono in caduta libera come testimonia il capitombolo dell’Iva nei primi cinque mesi del 2013 (meno 6,8 per cento) e stiamo qui ad almanaccare come non aumentare ancora l’aliquota. A costo di essere noiosi ribadisco il concetto: ci si attrezzi, subito, per tagliare già da settembre la spesa pubblica improduttiva e trovare qualche euro da investire produttivamente. In caso contrario, spiace dirlo, il Paese non farà un solo passo avanti. E altrettanto noiosamente ripeto: di sole e troppe tasse l’Italia muore.
Ps: ci sarebbe anche da spendere qualche riga su una nuova condanna che mi riguarda. Altri otto mesi senza condizionale che si aggiungono ai precedenti otto mesi di carcere. Ancora una volta il reato è di omesso controllo, trovate i particolari a pag 14. Io ho davvero poco da dire, la stragrande maggioranza dei miei colleghi ha ritenuto di non aver proprio nulla da dire. Eppure rappresento purtroppo il primo caso in Italia di un direttore che rischia seriamente di andare in galera per questo reato. Ce lo siamo già ripetuti: odio fare la vittima, in questo caso c’è di mezzo la violazione del principio costituzionale della libertà di stampa e di critica che riguarda tutti. Pare che non gliene freghi molto alla categoria. Posso dire che gli oranghi sono più simpatici di molti giornalisti?