Caso Shalabayeva, imparare da Londra

Per capire meglio l’affaire Ablyazov (o Shalabayeva, se preferite) - cioè il caso dell’oligarca kazako che sta scuotendo il governo italiano per la mala gestione del rimpatrio di moglie e figlia ad Astana - potrebbe essere utile paragonare l’operato delle istituzioni italiane con il modus operandi di quelle britanniche. Questo perché è a Londra che Mukhtar Ablyazov si è rifugiato da anni.

Downing Street, che ben conosce Ablyazov, ha gestito la questione dell’oligarca kazako in modo molto differente rispetto al Viminale. E non solo perché il “british style” è altra storia rispetto all’“italian style”, ma anche perché ai Paesi protestanti piace seguire le regole, indipendentemente dal soggetto coinvolto, con una linearità e una compostezza che a noi appaiono sempre più d’antan. Per non dire superflue.

Chi è Mukhtar Ablyazov

Ablyazov non è certo uno “stinco di santo”, tanto per dirla ancora all’italiana. Laureato in fisica teorica, fu visto come la nuova generazione che poteva portare il Kazakhstan del presidente Nursultan Nazarbayev a un ruolo di primo piano in Asia. Ablyazov guadagnò una fortuna dopo il crollo dell'Unione Sovietica, fino ad arrivare a gestire una società elettrica, fatto che lo portò a ricoprire anche la carica di Ministro dell’Energia. In quella veste fu poi condannato per abuso di potere e incarcerato per dieci mesi, dal 2002 al 2003. In seguito, scansò una lunga condanna grazie alla promessa di non occuparsi più di politica e di non finanziare gli oppositori del presidente Nazarbayev.

Potè quindi rifarsi una “verginità” a Mosca, dove riuscì a diventare presidente della banca BTA, tralasciando in apparenza la politica. Ma in seguito alla sua gestione della banca e ai finanziamenti privati, Ablyazov venne accusato di appropriazione indebita (per 6 miliardi di dollari), la banca nazionalizzata e da Mosca arrivò anche una condanna per reati finanziari.

Così, nel 2009, l’oligarca riparò nel Regno Unito, dopo essere scampato negli anni a più tentativi di omicidio e a precedenti rapimenti dei figli. Oggi è sotto indagine dell’Alta Corte britannica per appropriazione indebita e nel 2011 Londra gli ha concesso lo status di rifugiato politico. Mentre moglie e una figlia erano in Italia fino a ieri, il resto della prole è in Svizzera.

Il caso emblematico di Abu Qatada

Per capire come Londra gestisce i rifugiati politici, bisogna ricordare il caso di Abu Qatada, ribattezzato qualche anno fa da un giudice spagnolo “l’ambasciatore di Bin Laden in Europa”. Qatada, al secolo Omar Othman, è un religioso e politico giordano di origini palestinesi, coinvolto in una querelle giuridica tra Giordania e Regno Unito, dove ha risieduto per dieci anni, fino a pochi giorni fa.

Londra, dove Qatada arrivò sotto falso nome attraverso gli Emirati Arabi Uniti, lo ospitava sin dal 1993 in regime di asilo politico, sebbene accusato e condannato in contumacia all’ergastolo in Giordania nel 1999 per “terrorismo e legami con Al Qaeda”.

Da allora, è rimasto al centro di una battaglia legale infinita da parte dei suoi avvocati, volta a impedirne l’estradizione. Fatto, peraltro, che Downing Street non gradiva ma che aveva dovuto accettare, in ragione dell’inderogabilità del diritto internazionale.

Dopo tredici anni di lotte nei tribunali per ottenerne l’estradizione, il governo britannico la settimana scorsa è finalmente riuscito a liberarsi dell’islamista radicale, grazie a un’intesa tra i due Paesi volta a garantire al rifugiato i propri diritti, cui è seguito un preciso carteggio diplomatico, necessario al Regno Unito per ratificare la decisione e procedere al cerimoniale di espulsione.

Quindi, la notte del 7 luglio, il cinquantatreenne predicatore palestinese è stato prelevato dalla prigione di Belmarsh e fatto salire a bordo di un velivolo della Raf, alla base di Northolt. A sorvegliarlo, c’era un’equipe di sei uomini arrivati appositamente dalla Giordania, in piena trasparenza istituzionale. Atterrato cinque ore più tardi all’aeroporto militare di Marka, Abu Qatada è stato trasferito in un carcere di massima sicurezza nei pressi di Amman, scortato da dodici auto della sicurezza. La procura militare giordana lo ha quindi incriminato per “cospirazione finalizzata al compimento di atti terroristici”.

Londra non è Roma

L’episodio dimostra che Londra ha agito con lucida freddezza, secondo la prassi istituzionale giuridica che si richiede a un Paese progredito che opera nell’alveo del diritto internazionale. E questo nonostante che, proprio per il caso Abu Qatada, nel giugno del 2009 il defunto leader di AQIM (Al Qaeda nel Maghreb Islamico), Abou Zeid, decise di sgozzare l’ostaggio britannico Edwin Dyer, rapito al confine tra Niger e Mali, in risposta al governo inglese che non aveva scarcerato l’imam giordano.

Londra, dunque, ha vinto la rabbia e l’istinto ed ha agito illuminata dalla ragione e dall’amor proprio. È ad esempi come questo che oggi il governo italiano dovrebbe guardare: non certo perché gli inglesi siano migliori di noi ma, piuttosto, per evitare di coprirci di ridicolo di fronte al mondo con procedimenti troppo spesso raffazzonati, adottati “all’insaputa” dei responsabili politici.

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