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EPA/JOSE COELHO
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Catalogna in bilico sul burrone dell'indipendenza

I secessionisti duri e puri, che pur ci sono in Catalogna, oggi potrebbero usare la felice battuta degli “Intoccabili” contro Carles Puigdemont: “Sei tutto chiacchiere e distintivo”.

Le chiacchiere sono purtroppo quelle che hanno alimentato la spinta separatista della Catalogna, una sorta di tuffo nel Medioevo ma anche specchio delle pulsioni che squassano la vecchia Europa.

La Catalogna già gode di un’ampia autonomia e ha ritrovato, dopo la caduta di Franco, anche l’orgoglio della propria lingua così diversa da quella spagnola castigliana.
Ma non ha riscoperto solo le proprie radici culturali e identitarie. La Catalogna è riuscita, dentro la Spagna, anche a confermare la propria tradizione di dinamismo economico, imprenditoriale e commerciale.

Da ieri, si trova pericolosamente in bilico sul crinale di una dichiarazione d’indipendenza furbescamente (vedremo quanto) non detta.

Almeno, non proclamata pomposamente, ma brandita come gigantesca arma di ricatto politico nei confronti di Madrid in nome di una trattativa che il governo centrale non vuole aprire, perché non riconosce (a ragione) la legittimità del referendum.

Quel referendum in realtà viola platealmente la Costituzione spagnola che sancisce la unità e indissolubilità di una nazione costituita di “nazionalità”.

Territorio unico, frontiere uniche, Stato unico, pur nella convergenza di anime diverse. Questo stabilisce la Carta che fonda la nuova Spagna.

La stessa legge istitutiva del referendum (e poi delle procedure transitorie che dovrebbero accompagnare il passaggio a una effettiva indipendenza) anche quella è stata approvata illegalmente dal Parlamento catalano, non con la maggioranza prescritta dei due terzi ma con il 50 per cento più uno.

In una regione, per di più, nella quale anche agli ultimi sondaggi hanno sempre fotografato una bilancia tra sì e no all’indipendenza che pende dalla parte dei no.

Lo si è visto plasticamente con solo in quel mezzo Parlamento che non applaudiva Puigdemont, ma soprattutto nella scesa in piazza nei giorni scorsi del popolo unionista. Catalano e spagnolo.

La frenata di Puigdemont, che in Parlamento annuncia l’indipendenza e subito la sospende, rimanda alle “chiacchiere e distintivo”, specie con l’immediato rifiuto di Rajoy a trattare su queste basi “inaccettabili”.

Ma è anche vero le rivoluzioni nella storia sono sempre state fatte da minoranze. E i percorsi che hanno portato ai grandi cambiamenti non sempre sono stati dritti e lineari.

Puigdemont ha comunque innescato un processo le cui conseguenze non si vedranno subito. E quindi solo il tempo, attraverso la dialettica tra leader politici a Madrid e Barcellona, dirà se siamo di fronte a “tanto fumo e niente arrosto” o a un tipico meccanismo da “apprendisti stregoni”.

Cioè spacconi allo sbaraglio che non sanno prevedere gli effetti disastrosi delle proprie azioni, oppure astuti navigatori attraverso il tira e molla, il passo avanti e quello indietro, della politica politicante.
Certo è che più che giocare con l’acqua come il piccolo mago Topolino, i vertici della politica catalana stanno giocando col fuoco.

E a contrastarli a Madrid c’è una leadership debole come quella che sperimentiamo in tutta Europa. C’è da sperare che abbia ragione Rajoy nel sostenere, come ha fatto dopo il referendum, che quella di Puigdemont e della sua cerchia di secessionisti è soltanto una gigantesca “messa in scena”.

Ma attenzione: la storia ci ha abituato a messinscene che si sono trasformate in tragedia.

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