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August 30 2018
Cresce l’esercito ultra conservatore della Chiesa cattolica che ha dichiarato, ormai, guerra aperta a papa Francesco.
E l’occulta base operativa si nasconde, ma nemmeno troppo, tra le gerarchie ecclesiastiche degli Usa, negli ultimi giorni scosse dallo scandalo esploso in Pennsylvania per oltre trecento preti finiti sotto accusa per casi di pedofilia e per i quali il Pontefice sta invocando in più riprese — come ha fatto nei giorni scorsi in Irlanda — “perdono” alle vittime e “giustizia per i colpevoli”, ammettendo senza troppi giri di parole che “la Chiesa non ha fatto abbastanza per tutelare i bambini da quei sacerdoti che hanno tradito il giuramento di fedeltà a Cristo”.
Tuttavia, Bergoglio non può non sentirsi sotto attacco proprio mentre il suo sforzo di fare pulizia nella Chiesa è sotto gli occhi di tutti.
Il caso Viganò lo prova ampiamente. Il dossier al veleno diffuso, non a caso, proprio mentre il papa era in Irlanda e a pochi giorni dalla pubblicazione della clamorosa Lettera al Popolo di Dio per le vittime di pedofilia, virtualmente sembra essere stato partorito proprio sul fronte statunitense, benché scritto a Roma.
L’autore, infatti, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, è stato nunzio negli Usa per quattro anni, dal 2011 al 2015. Qui ha stretto amicizia con le componenti ecclesiali più reazionarie, diventando nel frattempo una sorta di kamikaze delle truppe antibergogliane di stanza, in prevalenza, nell’America del Nord.
Si tratta di gruppi assai vicini al presidente Usa Donald Trump, per il quale papa Francesco non ha mai manifestato eccessive simpatie, specialmente in materia di politiche immigratorie e di costruzioni di muri divisori, come quello tra Messico e Stati Uniti, criticato dal pontefice alla vigilia della elezione dello stesso Trump alla Casa Bianca, quando il progetto del muro era solo uno dei punti del programma elettorale del candidato.
Tra i due — il papa argentino e il presidente miliardario — non corre buon sangue dunque. Trump non lo ha ancora invitato alla Casa Bianca, più che una palese “scortesia” diplomatica, dopo essere stato ricevuto (piuttosto freddamente, in verità) in Vaticano il 24 maggio 2017. Alla Casa Bianca papa Bergoglio c’è stato il 22 maggio 2015, regnante Barak Obama.
Il dossier di monsignor Viganò non si può capire nella sua vera essenza se non si tiene presente l’influenza americana sul suo discusso autore, che comunque sarà consegnato alla storia come il primo arcivescovo del terzo millennio che si è spinto a chiedere le dimissioni del papa per non aver preso “tempestivamente” i dovuti provvedimenti contro il cardinale Theodore Edgar McCarrick, ex arcivescovo di Washington accusato di crimini sessuali (lo stesso porporato dimissionato da Bergoglio nei giorni scorsi).
Una richiesta destinata a fare il classico buco nell’acqua, a non lasciare tracce, anche se il destinatario ci ha sofferto moltissimo. “Benchè amareggiatissimo per il dossier, il Santo Padre non pensa, nemmeno lontanamente a dimettersi”, si apprende, infatti, dai portavoce pontifici.
Ma Oltretevere non si nasconde che a colpire il pontefice non sono stato tanto le accuse di Viganò, quanto il sostanziale grande freddo con cui gran parte della Chiesa statunitense ha seguito, e sta seguendo, la vicenda sollevata dall’ex nunzio Usa.
Un atteggiamento di inquietante distacco che sta generando profonda preoccupazione dentro e fuori il Vaticano, specialmente tra le componenti più illuminate del cattolicesimo americano che a fatica riesce a far sentire la sua voce sui mass media in difesa di Bergoglio.
“Salvo pochissimi, che hanno preso le distanze dal dossier Viganò, la difesa del Papa da parte dei vescovi statunitensi è stata alquanto tiepida. Così facendo, non so se si rendono conto che danno l’impressione di essere a un passo dallo scisma”, avverte, infatti, lo storico della Chiesa Massimo Faggioli, docente di Teologia e Studi religiosi alla Villanova University di Philadelphia.
“Oggi sappiamo che Viganò ha lavorato a quattro mani col giornalista italiano Marco Tosatti, mai tenero con Bergoglio, nella stesura del memoriale”, dice Faggioli. Particolare in parte smentito da Marco Tosatti che ha precisato di essersi “limitato” a titolo di amicizia a fornire una consulenza sull’editing del testo scritto interamente da Viganò.
“Il diplomatico vaticano ha fornito la miccia dello scandalo, ma — assicura Faggioli — la maggior parte dell’esplosivo proviene dalla Chiesa statunitense che, almeno nella sua componente tradizionalista minoritaria, sin da subito ha fatto di tutto per mettere i bastoni fra le ruote al Papa”. “I vescovi americani, non tutti chiaramente, sono l’appendice di una galassia composita, fatta di media ultra conservatori, associazioni di estremisti del pro-life, sigle legate al business capitalistico, da sempre ottimi finanziatori della Gerarchia, e gruppi nazionalisti vicini all’ex guru di Donald Trump, Steve Bannon”, evidenzia Faggioli.
“Tutte queste realtà considerano, con sfumature diverse, Francesco una specie di usurpatore”. Ma non solo. È tutta di stampo americano l’accusa di eresia che addirittura un cardinale ha lanciato contro il pontefice. Porta la firma — e anche questa non è una casualità — di uno dei più alti prelati statunitensi, il cardinale Raymond Leo Burke (70 anni, e quindi con diritto di voto in Conclave), potente Patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta, su nomina di papa Francesco l’8 novembre 2014.
Burke non è nuovo a questi attacchi anti papali, essendo uno dei quattro cardinali dei Dubia (i Dubbi) contrari alle aperture avviate da Francesco sulla pastorale familiare con la comunione a divorziati risposati, cura e accompagnamento spirituale per le coppie di fatto e i loro figli, e vicinanza a unioni omosessuali.
Aperture bollate come “cedimenti dottrinali” e “tradimento dell’insegnamento tradizionale della Chiesa su morale e disciplina matrimoniale” in una lettera aperta sottoscritta, oltre allo stesso Burke, anche dall’italiano Carlo Caffarra, e dai due tedeschi Walter Brandmuller e Joachim Meisner.
Caffarra e Meisner lo scorso anno sono scomparsi, ma il testimone dell’aspra battaglia contro papa Bergoglio ora è saldamente in mano a Brandmuller — non confermato da Bergoglio a Prefetto della Congregazione della Dottrina delle Fede dopo un solo mandato — e da Burke, discutibile testa di ponte tra il Vaticano — dove papa Francesco finora non lo ha rimosso per non creare ulteriori tensioni — e la Chiesa cattolica americana col palese tentativo di compattare l’integralismo anti bergogliano con il fondamentalismo politico cattolico incrollabile portabandiera dei “valori” di Donald Trump.
Miccia pericolosissima che ha avuto in Viganò il detonatore ideale per lanciare a livello planetario la frase che conservatori ed integralisti, non solo negli Usa, amano sentire, “Papa Francesco dimettiti!!…”.
Bergoglio non lo farà, ma altri Viganò potrebbero arrivare dall’altra sponda dell’Atlantico.