Politica
November 21 2024
Sognava di essere come il Jep Gambardella de La grande bellezza, che si compiace dei suoi controversi intenti: «Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire». Ma Matteo Renzi ha perso pure il residuale potere di interdizione. A quelle feste non lo invitano più. E quando tenta di imbucarsi nel sedicente campo largo, viene perfidamente allontanato. Povero Matteo, già premier e aspirante rottamatore. Quest’estate s’era illuso. Aveva indossato speranzoso gli scarpini da calcio, per la partita del cuore tra politici e cantanti. Non era andata malissimo: assist in fuorigioco alla leader del Pd, Elly Schlein, seguito da un caloroso abbraccio. All’opposizione, che diamine, ci sarebbe stato posto anche per lui: il funambolo centrista che, a furia di dribblare, s’era ritrovato solo in campo. Invece, i pentastellati di Giuseppe Conte e i sinistroni di Nicola Fratoianni l’hanno messo alla porta.
Già, povero Matteo. «Non saremo un partito del 5 per cento» prometteva mentre lanciava nell’agone la sua Italia viva, che adesso si gingilla attorno a un impietoso due per cento. Scriveva trepidante: «Una frase di Robert Frost citata in un altro film, L’attimo fuggente mi ha sempre fatto compagnia nei miei anni da boy scout. “Due strade trovai nel bosco e io scelsi quella meno battuta. Ed è per questo che sono diverso”». Ma la poetica citazione è diventata un epitaffio. Quel sentiero è ormai un vicolo cieco. La ricerca del centrino perduto è finita. Anni di vagheggiamenti, fino alla resa.
Eppure, il mitologico spazio che avrebbe scardinato il deleterio bipolarismo sembrava l’Eldorado politico. A contenderselo, oltre a Renzi, c’era Carlo Calenda: il Churchill dei Parioli, padre padrone di Azione. I due egotici capi partito hanno perfino tentato di creare il terzo polo, durato poco più di un tormentato annetto. Al debordante Carlo erano rimasti almeno gli ex fuoriclasse forzisti, che aveva incantato per infoltire le sue chiccose truppe: le ex ministre berlusconiane Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, la deputata Giusy Versace e l’ultragarantista Enrico Costa. I navigati parlamentari erano diventati i più illustri esponenti del partito, dopo il fondatore s’intende. Adesso lasciano il leader terzista al suo confuso destino. «Il Pd è un fritto misto, ci puoi buttare dentro di tutto, qualsiasi cosa sta bene» svelena difatti Calenda. Anche a lui, però, tocca fare il totanetto. Offre dunque il suo modesto contributo alla causa, appoggiando i tre candidati dem alle ultime regionali in Liguria, Umbria ed Emilia-Romagna.
Costa torna con gli azzurri. Mentre le tre parlamentari convergono su Noi moderati di Maurizio Lupi, diventato il centro di gravità permanente dei disillusi. Un fuggi fuggi che favorisce la maggioranza sia alla camera sia al senato: non solo numericamente, ma anche visto il peso in aula dei figli prodighi. Ma pure Italia viva continua a decomporsi: dopo l’ex ministra Elena Bonetti, lascia il vivace economista Luigi Marattin, assieme un gruppo di duecento dirigenti. Tutti contrari alla disperata rincorsa di Renzi verso il campo largo. Coerentissimo, invece, l’ex coordinatore nazionale, Ettore Rosato, diventato vice presidente di Azione. Intanto, Matteo e Carlo, incuranti dello sprofondo, continuano a dileggiarsi. «Calenda ha iniziato a distruggere il terzo polo e ora distrugge Azione» gongola uno. «Renzi è un buffone» sancisce l’altro.
Travolti da un identico destino nell’azzurro mare centrista. E non solo politicamente. Fino a due anni fa, i due partiti incantavano imprenditori e sostenitori, facendo incetta di finanziamenti. Tra agosto e settembre 2022, per esempio, Italia viva aveva infranto ogni record: quasi 1,4 milioni di donazioni. Traguardo simile per Azione: nello stesso periodo, quasi 1,3 milioni. Nell’elencone c’erano alcuni tra i più bei nomi dell’economia italiana. Da Patrizio Bertelli, che aveva versato 50 mila euro, a Pierluigi Loro Piana, 65 mila euro. E poi Guido Maria Brera, Marco Tronchetti Provera, Ermenegildo Zegna, Renzo Rosso, Davide Serra, Lapo Rattazzi. Insomma: ai due partitini erano arrivati 2,7 milioni di euro in appena due mesi. Magre percentuali e magre figure devono però aver convinto i munifici finanziatori a desistere. L’ultimo rendiconto di Italia Viva dettaglia: nel 2022 aveva raccolto, tra donazioni private e aiuti arrivati da alcune società, quasi 2,3 milioni di euro. Il totale, l’anno scorso, s’è invece fermato a 497 mila euro: meno 78 per cento. Sfacelo simile per Azione, passata da 2,2 milioni a 542 mila nello stesso periodo.
La pacchia è finita. Chi spunta allora tra Renzi e Calenda, come alfiere del centrino progressista? Un altro dall’ego sconfinato: Beppe Sala. Anche nel suo caso, il meglio è decisamente alle spalle: il sindaco di Milano fronteggia un gradimento calante dei cittadini, tra la criminalità che dilaga, le inchieste sulle concessioni edilizie e il controverso eco-furore. Il suo mandato scade nel 2026. Nell’attesa, Sala chiarisce: una superba riserva della patria come lui non può che diventare leader nazionale. L’alta considerazione di sé non collima però con gli spietati giudizi dei contendenti. «Se vuole dare una mano, superando le precedenti sbandate, è il benvenuto», lo liquida il solito Renzi. Dall’alto dei suoi roboanti insuccessi, ricorda perfidamente i fallimentari precedenti del sindaco, che aveva già tentato di guidare i verdi italiani e poi un’ipotetica formazione post grillina. Ora, bisogna essere onesti: Matteo scansa gli elettori come birilli, ma a chiacchiere resta insuperabile. In effetti, i trascorsi di Sala non sembrano il miglior viatico per capeggiare il famigerato centro dell’ammaccata sinistra. Un ruolo ambitissimo, per cui ci sono più aspiranti che elettori. Renzi, Calenda e Sala sono ineguagliabili talenti. Resta un odioso impedimento alla loro ascesa: i voti. Due per cento, o giù di lì. Vedi le regionali liguri, appunto. Italia viva s’è dovuta ritirare dalla competizione, vista l’avversione di grillini e sinistra. Mentre Azione, pur affiancata da altre quattro scintillanti sigle, ha raccolto uno striminzito 1,75 per cento. Fare il ruotino di scorta, a dire il vero, non ha entusiasmato nemmeno gli eletti renziani e calendiani: da Genova a Catania, lasciano i moribondi al loro gramo destino.
Più feconda, sebbene altrettanto caotica, pare invece la ricerca del centrino perduto nella maggioranza. Certo, anche qui non si fa incetta di preferenze. L’eredità della Dc se la sono spartita un po’ tutti. Ma adesso è proprio Fratelli d’Italia a spingere per allargare la maggioranza, tanto da aver già lanciato Lupi per la corsa a sindaco di Milano. Indicare il possibile successore di Sala sembra già ostico per la sua coalizione. Probabilmente, si sceglierà il candidato sindaco con le primarie. In lizza, oltre al giornalista Mario Calabresi, ci sarebbe anche il capogruppo regionale del Pd, Pierfrancesco Majorino.
Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, approfitta del momento e lancia proprio Lupi. Noi moderati ha già federato l’Udc di Lorenzo Cesa. Mentre rimangono per adesso autonome altre sigle nate sempre per evocare la balena bianca. La battaglia ideale s’è trasformata in contesa giuridica, per riconquistare il mitico simbolo scudo crociato, tra le redivive Dc: quella di Totò Cuffaro, ex governatore in Sicilia, dove peraltro resta decisivo, e quella di Gianfranco Rotondi, deputato eletto con Fratelli d’Italia. «Deponiamo le armi e conferiamo tutti i nostri diritti reali o presunti alla Democrazia Cristiana, consentendole di rinascere col proprio nome e il proprio simbolo storico» annuncia Rotondi. E poi c’è Alternativa popolare, dell’assai meno ecumenico Stefano Bandecchi, scoppiettante sindaco di Terni. Il partito s’è alleato con il centrodestra. Era del felpatissimo Angelino Alfano. Ora è in mano all’incontenibile Bandecchi. Un moderato? Macché. «Il moderatismo è la fine della politica vissuta con il cuore» spiega l’interessato. Si definisce «rivoluzionario», piuttosto. Anche lui al centro, comunque. Tra inguaribili nostalgici della Prima repubblica e devoti sgranatori di rosario.