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August 08 2012
Cucina e narrativa hanno un lungo e consolidato rapporto. Da secoli, anzi da millenni. Non c’è scrittore che non se ne sia occupato, mettendo a tavola i suoi principali personaggi. In dieci puntate , proviamo a raccontare il rapporto tra cibo e letteratura attraverso classici, romanzi e libri di successo.
Parte in sordina, matura con le prime opere, trionfa con i capolavori dell’età più adulta. Il legame d’amore tra Jorge Amado e la cucina non ha riscontri di pari livello nella letteratura sudamericana. Non ha paragoni sia per la spasmodica attenzione che lo scrittore di Itabuna dedica al cibo, sia per la ricercatezza del lessico nella descrizione di manicaretti e leccornie varie. È un tratto indelebile della sua produzione. Di più: insieme alla denuncia sociale e all’ambientazione bahiana, costituisce la nervatura narrativa della sua opera.
Non c’è vita senza cibo, sostiene Amado, ed infatti i piatti tipici brasiliani sbucano già alla prima occasione utile, sull’angolo di una strada di Bahia, nel primo romanzo Il paese del carnevale . Ma è solo una fugace apparizione, assai diversa da quella del secondo libro, non a caso intitolato Cacao . A comporre il mosaico culinario, stavolta è un tripudio di carni essiccate, fagioli, farine di manioca, frutta appena raccolta e acquavite di canna da zucchero. Una dimensione «domestica» del cibo, destinata ad eclissarsi nel successivo Jubiabà, palcoscenico ideale dove la cucina lascia il profilo più dimesso della gastronomia, levando ad un autentico rituale sociale. È qui che incontriamo una donna nera che «per strada gridava ancheggiando: “Noccioline tostate! Acarejé!”».
Che sarà mai questo strano piatto, recitato quasi fosse un rito propiziatorio durante una delle più gravi carestie di Bahia? Uno stuzzichino, «uno spizzico, che si mangia lontano dai pasti per tappare il buco nello stomaco, o prima di cena per stimolare l’appetito». L’Acarejé è uno dei pezzi forti della cucina targata Brasile; la sua preparazione, però, non è affatto semplice. A spiegarlo è lo stesso Amado nel libro scritto insieme alla figlia Paloma (La cucina di Bahia , 1994). Diamo un’occhiata alla ricetta: «Una volta si preparava l’impasto dell’acarajé levando la buccia ai fagioli dall’occhio, uno a uno, e grattugiandoli sulla pietra», ovvero un grosso arnese, a forma di parallelepipedo lungo cinquantatre centimetri e largo poco più di venti. «La parte piana – prosegue Amado – non è liscia, ma viene picchettata per renderla porosa o increspata. Un cilindro della medesima pietra, lungo circa trenta centimetri, ha tutta la superficie ruvida. Questo “matterello”, fatto rotolare avanti e indietro lungo la pietra, trita con facilità il mais, i fagioli, il riso etc». Dunque, se c’è la «pietra» è meglio. Ma se non c’è, poco male: oggi – ricorda Amado – si usa anche il frullatore e il tritacarne e «non sempre i fagioli risultano perfettamente sbucciati. Anzi, alle volte non si usano neanche i fagioli, dato che per togliersi la voglia di un acarajé si possono inventare mille cose».
In Cacao Amado li cucina ad esempio con i fagioli bianchi. Tradizione però impone che per una quindicina di persone si debbano procurare poco più di un chilo di fagioli e di cipolle, un po’ di sale e quanto basta di olio di palma per friggere tutto quanto. Basta poi tritare grossolanamente i fagioli («per spezzettarli senza sminuzzarli») e «metterli a bagno nell’acqua in modo che restino coperti, per ventiquattro ore». Lavati e scolati, si passano nel tritacarne e, una volta grattugiate le cipolle, si cucinano entrambi in una pentola «fino a che il tutto sia ben amalgamato». Subito dopo, tocca alla frittura: «In una padella versate olio di palma in abbondanza (in quantità tale che durante la frittura copra a metà l’acarajè), aggiungete la cipolla intera e sbucciata e fate scaldare bene. Con due cucchiai date forma agli acarejés e metteteli a friggere nell’olio (è bene sciacquare ogni volta i cucchiai per facilitare il lavoro). Quando una parte è croccante, girate delicatamente l’acarajé aiutandovi con una schiumarola. Può essere servito così o tagliato a metà e spruzzato di salsa di peperoncino, o ripieno di vatapà».
Già, il vatapà: altro piatto decisivo nei romanzi di Amado. La sua preparazione lenisce i dolori di Dona Flor nel romanzo più noto di Amado (Dona Flor e i suoi due mariti ). Dopo aver chiesto di essere lasciata «in pace con il mio lutto e la mia solitudine», è la vedova di Vadinho a decidere di cucinare il piatto più famoso di Bahia. «Per un vatapà di dieci persone – spiega serafica nel romanzo – portate due teste di cernia freschissima, potete usare anche un altro pesce, ma non viene così buono». E poi «sale, coriandolo, aglio, cipolla, qualche pomodoro e il succo di un limone»: questi gli ingredienti, il resto è affidato alle mani della celebre protagonista del romanzo amadiano. Si inizierà così con il rosolare «il pesce negli odori», aggiungendo un «sorso d’acqua, un sorso piccolo, quasi un niente. Poi scolate il sugo, mettetelo da parte, e proseguiamo». A questo punto, toccherà disporre di una grattugia e di due noci di cocco: «grattugiate di buona lena, suvvia, grattugiate: un po’ di esercizio non ha mai fatto male a nessuno (dicono che il moto tenga lontani i pensieri cattivi, ma io non ci credo). Raccogliete la polpa e scaldatela prima di spremerla: sarà più facile ottenere il latte spesso, il puro latte di cocco non diluito». Attenzione però: «lasciatelo da parte. Ottenuto il primo latte, non buttate via la polpa, non siate sciuponi, non è tempo di sprechi. Prendete la polpa e scaldatela in un litro d’acqua bollente. Spremete di nuovo per ottenere il latte diluito». È l’ora di cercare un po’ di pane raffermo, stando bene accorti nel togliere la crosta e poi «mettendolo a mollo nel latte diluito. Nel tritacarne (lavato per bene) passate il pane bagnato nel latte di cocco e macinate insieme le arachidi, i gamberoni essiccati, gli anacardi, lo zenzero e non dimenticate il peperoncino che aggiungerete a piacere». Macinati e mescolati i «condimenti, aggiungeteli al brodo di cernia, sommando sapore a sapore, il cocco con lo zenzero, il sale con il pepe, l’aglio con gli anacardi, e mettete tutto sul fuoco per addensare il brodo». Infine, spiega serafica Dona Flor, «aggiungete il latte di cocco, quello denso e puro, e alla fine l’olio di palma, due tazze colme: il dende, colore dell’oro antico, il colore del vatapà. Lasciate cuocere a lungo a fuoco basso; continuate a mescolare con il cucchiaio di legno e sempre nello stesso verso: non smettete di mescolare se no impazzisce il vatapà. Mescolate, rimescolate, coraggio, senza fermarvi; fino alla giusta cottura e con precisione». E spetta sempre alla vedova l’annuncio che la pietanza è finalmente pronta. C’è tempo per gli ultimi, decisivi suggerimenti: «Bene, il vatapà è pronto, non è una meraviglia? Prima di portarlo a tavola metteteci sopra un filo di olio crudo. Servitelo con polenta di granturco, i fidanzati e i mariti si leccheranno i baffi».
Questi i gusti di Dona Flor. Il piatto forte della famiglia Amado resta però il cosciotto al forno. Jorge lo fa cucinare in moltissimi romanzi. Tra gli altri, lo ritroviamo nei Guardiani della notte e in Alte uniformi e camicie da notte . «Più della carne, piace la crosta scura, salata, croccante, che si forma sopra e che è oggetto di contesa». È una preparazione lunga, paziente, piuttosto costosa. Per una dozzina di persone, Amado suggerisce un cosciotto di maiale di almeno sei chili. Sono inoltre necessari nove spicchi schiacciati di aglio, sette foglie di alloro, quattro rametti di rosmarino, una decina di grani di pepe nero, un litro di vino e mezzo chilo di farina di manioca». Il rito inizia il giorno prima dalla pulitura del pollo, che va «bucherellato con un coltello a punta aguzza». Continua poi in un catino, dove il cosciotto è messo «a bagno nel vino con tutti gli ingredienti», «girato spesso affinché assorba gli aromi in modo uniforme. Il giorno dopo sistematelo in una teglia, coperto dalla marinata in cui è stato a mollo. Nel forno preriscaldato mettete il cosciotto e lasciatelo cuocere lentamente per quattro o cinque ore bagnandolo ogni tanto con il sugo. Ogni volta che il sugo sta per asciugarsi, aggiungete un po’ d’acqua. Il cosciotto è pronto quando, punzecchiandolo a fondo, la carne risulta tenera, non esce più il siero e la superficie è ben tostata». Ma la ricetta non è finita qui. A casa della famiglia Amado, così come in quella di Dona Flor, non si butta via niente. Ecco dunque gli ultimi suggerimenti, utili a quel salto di qualità che fa di una pietanza una vera composizione culinaria: «Raccogliete il sugo di cottura in salsiera. Spostate la teglia sul fuoco e distribuite la farina di manioca sul grasso che vi è rimasto. Con un cucchiaio di legno grattate il fondo e mescolate con energia, ottenendo una farofa. Servite il cosciotto con fette di limone, banane fritte, farofa e riso pilaf».
Un piatto assai impegnativo, decisamente diverso dalla carne essiccata, altra costante nei romanzi amadiani. Essenziale, nutriente, «si conserva a lungo, e lo si può portare appresso nei lunghi viaggi, come la traversata del sertão per sfuggire alla siccità. Ancora più a lungo si conserva la carne essiccata pestata nel mortaio con cipolla cruda e farina di manioca, che si chiama passoca, cibo squisito che dura molti mesi conservata in scatole di latta o trasportata nelle taschette dei cavalli, come facevano i cangaceiros». Il cibo dei poveri, ricorda Amado, «ma anche il cibo del santo». Tra i sapori e gli odori di Bahia, la dimensione privata e quella sociale si confondono fino a sparire in una nebulosa di allusioni e di divagazioni dal retrogusto filosofico: «Che ne sapete voi, ragazze, dell’intimità di una vedova?» domanda mentre cucina Dona Flor.
«Il desiderio di una vedova è un desiderio di dissolutezza e di peccato, una vedova per bene non parla di queste cose, non pensa a queste cose, non ne parla. Lasciatemi in pace nella mia cucina» e sospira, quasi rassegnata, continuando ad alta voce la preparazione dell’ennesimo manicaretto. Anche quando è sola, Flor resta comunque in compagnia del suo cibo. E la sua ricetta diventa il rosario laico di una civiltà nient’affatto incline alla solitudine e all’emarginazione.