Tecnologia
January 04 2022
Piccola doverosa premessa: chi scrive ha partecipato alle ultime dieci edizioni del Ces di Las Vegas, poteva essere anche a questa ma ha preferito declinare l’invito, non rischiare né partire. Ecco: se le parole che leggerete tradiranno una qualche invidia mascherata da ironia, un filo d’incontrollato livore verso i temerari (incoscienti?) volati in America, l’impressione potrebbe essere non troppo infondata.
Le coordinate minime, in seconda battuta: il Ces è la fiera della tecnologia più importante al mondo, la manifestazione di riferimento per la città del Nevada. In un anno normale, pre-pandemico, era in grado di attrarre oltre 170 mila visitatori tra imprenditori, analisti, giornalisti, professionisti a qualunque titolo del circo poliedrico dell’innovazione.
Nonostante fosse chiusa al pubblico generalista, produceva un indotto superiore a 300 milioni di dollari per volta. Sebbene durasse una manciata di giorni, sfornava primizie a ripetizione tra varie galassie: elettronica di consumo, innovazione e start-up, automobili, tutto ciò che ha una qualche confidenza con il futuro, il vago, spesso l’improbabile o l’improponibile.
Nel 2020 si è svolta regolarmente: si scoprì solo dopo che il virus era già arrivato in Nevada. Anzi, l’evento stesso sarebbe stato un veicolo di diffusione del contagio in tutti gli Usa, come riconobbe e scrisse in aprile anche il blog di tecnologia americano Mashable.
Nel 2021 si è ridotta a un’alternativa online, mesta nella resa più che nelle intenzioni, perché il bello della kermesse è l’antitesi di ciò che il virus consente: toccare e impugnare le novità, conversare senza distanziamento con chi le ha concepite, tanto tra gli stand quanto con un bicchiere in mano: nel corso delle miriadi di party, cocktail, lunch, brunch, nottate in club super chic, più altre occasioni orchestrate o inaspettate di socializzazione. Un assembramento all’ennesima potenza.
Stavolta, l’organizzazione ha deciso d’incaponirsi: il Ces che non c’è, l’equivalente virtuale di sé stesso, è una presa in giro. Si farà, si è fatto, costi quel che costi. È in corso proprio in queste ore nella città del peccato. E peccato pure per chi non c’è, che se ne stia davanti a un computer a pontificare con sterili, piccate note di commento.
Per imporre una marcia indietro – decisa invece dall’Ifa, dal Mobile World Congress, dal Computex, dalle altre manifestazioni principali del settore – non sono bastate le defezioni dei nomi illustri, uno dopo l’altro: da Intel a Bmw, da Microsoft a Mercedes. Software, hardware, con tastiera, su ruote: più che la fiera delle vanità, il Ces si è trasformato nella fuga delle celebrità. Ma eppur si muove, nonostante durerà un giorno in meno del previsto. Ufficialmente per ragioni sanitarie, forse perché è talmente in scala ridotta da non richiedere chissà quanto tempo.
La grande sfida è stata rendere sicura una kermesse famosa tra gli addetti ai lavori per essere, di norma, un ricettacolo di virus, batteri, funghi e altre aberrazioni infettanti microscopiche. Sono agli atti guide online dai titoli poco edificanti quali «come non ammalarsi al Ces». Perché, può testimoniarlo il vostro cronista, per due volte si è tornati a casa con l’influenza, una con una febbre altissima che non è passata per due settimane procurando altri non citabili, fastidiosi corollari; altre due si è impossessato di naso e gola un raffreddore rabbioso. Lo stesso è avvenuto a colleghi, capi, potenti, rappresentanti di aziende. I virus in circolo in Nevada erano più criptici di qualunque variante Omicron.
Eppure, stavolta è diverso: sembrano esserci le condizioni per vivere una fiera in sicurezza, o almeno fare tutto il possibile perché sia così. Per ottenere il badge, il lasciapassare essenziale scrutinato dagli addetti con insistenza sfibrante, occorre esibire il certificato di vaccinazione. L’organizzazione consigliava, prima di partire, di farsi iniettare il booster e immunizzarsi pure contro l’influenza: chi l’avrebbe mai detto che i demiurghi di una manifestazione dedicata all’hi-tech si sarebbero trasformati in un manipolo di preoccupati virologi.
Quanto agli ingressi dall’estero, è obbligatorio un test per entrare negli Stati Uniti (assieme a un quantitativo immane di scartoffie da compilare), un altro viene consegnato in loco per somministrarselo in autonomia non appena si viene assaliti da sentori di malessere.
In generale, c’è molta meno gente: si parla di una forbice tra 50 mila e 70 mila persone, non poche, fino a un terzo del consueto. Ci sono tantissimi spazi vuoti, corridoi più larghi, che vogliono dire meno assembramenti. Ci sono anche – dobbiamo il dettaglio a Fjona Cakalli, instancabile creator presente con tutto il suo team a Las Vegas – degli adesivi che incarnano il sogno di misantropi, ipocondriaci, assennati iper-prudenti: appiccicarsi addosso quello verde indica che si è disposti a stringere la mano volentieri al proprio interlocutore (si spera igienizzandosi prima di passare allo stand successivo); il giallo che sfiorarsi con un pugno chiuso è sufficiente; il rosso che è meglio non avvicinarsi troppo, salutarsi facendosi ciao a distanza. Un metodo geniale, che andrebbe replicato altrove. Un semaforo della propensione al contatto.
Nel Convention Center, la sede principale della manifestazione, accanto ai cartelli che vietano di introdurre armi (benvenuti in America) sono comparsi quelli che ricordano, obbligano, a tenersi addosso la mascherina. Le prime immagini che arrivano dal Nevada mostrano coraggiosi già pentiti, con doppia protezione; altri più libertini, che se la tengono sotto il naso, travolti da un senso d’impunità difficilmente motivabile.
Di sicuro, la fiera è un banco di prova notevolissimo: nel suo riportare in auge il passato con i dovuti correttivi, vuole fa capire che una fiera globale in pandemia non è un’utopia. Che c’è una domanda, se si crea una qualche offerta. Che tra defezioni e prudenze, scongiuri e speranze, il mondo non si ferma.
Las Vegas è la capitale mondiale del gioco d’azzardo: Il Ces 2022, per esistere e definirsi, non poteva trovare un luogo più adatto.