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March 05 2018
I populisti dicono di parlare "in nome del popolo"; la loro legittimazione, sostengono, deriva direttamente dal popolo; in genere, attraverso le elezioni.
Solo che questa legittimazione che arriva dal popolo, giustificherebbe, secondo il credo populista, la delegittimazione delle altre fonti di autorità politica previste dalle costituzioni liberali: il Parlamento, le Corti (fino a quelle costituzionali o supreme), il capo dello Stato, i governi locali, a seconda dell'ordinamento del Paese.
In sostanza, il populista non accetta il sistema di pesi e contrappesi tipico delle strutture statuali liberali. Una volta ottenuto l'assenso del popolo in un'elezione, per il resto del mandato, niente deve poter fermare/controllare il governo del popolo.
I populisti quando parlano del "popolo" dal quale deriverebbe la loro legittimazione, identificano come tale solo una parte del popolo reale.
A seconda di dove si trovano e dell'opportunità politico-elettorale della quale vorrebbero approfittare, la loro concezione parziale del popolo esclude tutti o alcuni dei gruppi "esterni": gli immigrati, le persone di etnia o di religione diversa, di "razza" non bianca, gli intellettuali, i giornalisti, gli altri politici, le élite (con le più varie attribuzioni), uomini e donne con orientamenti sessuali non etero.
Tale concezione del "popolo", è molto simile a quella del Volk dei nazisti e giustifica il concetto di "nemico del popolo", usato indifferentemente dai fascismi storici, dal comunismo, da Putin e, recentemente, da Trump nei confronti dei giornalisti, dei democratici, degli intellettuali.
Ma i populisti, in questa fase storica, odiano e suscitano odio e paura nei confronti soprattutto degli immigrati, in particolare - in Europa e con Trump anche negli Usa - di quelli di religione musulmana (ma non solo): sono loro la categoria preferita per essere esclusa dal "popolo". E sulla cui richiesta di "esclusione" - con tutte le conseguenze (cittadinanza, welfare, persino istruzione e sanità) - giocano le carte elettorali.
Anche se in Europa (e negli Stati Uniti del trumpismo) "populismo" è soprattutto associato a movimenti, temi, linguaggi tipici della destra nazionalista, il populismo ha anche varianti di sinistra.
Ce lo ricorda spesso Benjamin Moffitt, (per esempio in un recente articolo su la Repubblica). Moffitt cita i populisti di sinistra sudamericani: da quello, esemplare, nelle sue caratteristiche, di Hugo Chavez in Venezuela a quello più moderato di Evo Morales in Bolivia.
Principale differenza fra il populismo di destra e quello di sinistra è la diversa concezione di "popolo": quello di sinistra tende a essere "inclusivo", tende cioè a estendere le categorie sociali che rientrano nel "popolo" (anche se quasi sempre ci sono ceti che vengono comunque escluse dal popolo dai populisti di sinistra); mentre a destra il concetto è più ristretto, chiuso, esclusivo (a volte su base addirittura razziale).
Moffit ci ha ricordato che John B. Judis ha scritto che mentre il populista di sinistra ha un solo nemico: l'élite; il populista di destra odia l'élite e i ceti sociali che pensa che siano favoriti dall'élite.
I populismi contemporanei giocano molto sul disagio provocato dagli smottamenti economici conseguenza della globalizzazione: "Nessuno vi lascerà più indietro", urlava Trump ai fan in campagna elettorale. Più o meno ciò che dice Le Pen ai ceri medi e operai della provincia francese.
Ma questa attenzione per il disagio economico è figlia dell'idea parziale di popolo che abbiamo visto in precedenza (punto 2): riguarda i bianchi, la "white working class", o i "veri francesi", e così via. Giusto per escludere tutti gli immigrati che, notoriamente, sono i più sfruttati, sottopagati, ricattati sui luoghi del lavoro.
Nemmeno oggetto dell'attenzione sono altri che pagano più la globalizzazione: i giovani precari impiegati nei servizi, per esempio.
I movimenti populisti non sopportano il pluralismo, la struttura pluralista della democrazia liberale con i contrappesiall'esecutivo; siano istituzionali - come l'ordine giudiziario, il Parlamento (cfr. 1), siano sociali: i media liberi e critici, le organizzazioni della società civile, i partiti, gli intellettualiindipendenti.
L'ostilità al pluralismo dei populisti si manifesta anche nella variante "culturale" del populismo: esso ama, pretende, l'uniformità di lingua, religione, comportamenti sessuali, orientamenti sulle libertà individuali: fine vita, aborto, matrimoni.
Da quanto abbiamo visto deriva anche l'ossessione anti élite dei populisti. Ossessione che è in realtà anche e soprattutto una manifestazione dell'ostilità generalizzata contro la cultura, i media, gli intellettuali, gli scrittori, il cinema: persone che hanno due peccati fondamentali agli occhi del populista:
disprezzano (a suo dire) la gente del popolo (inteso nel senso esclusivista di 2) e sono dei privilegiati (poco importa per esempio che sia stato o meno il talento a renderli dei privilegiati).
Anche il rifiuto degli "esperti", che sconfina in deliri anti-scientifici, per esempio contro i vaccini, è in parte frutto dell'ostilità contro gli intellettuali e la cultura.
Il linguaggio dei populisti è sempre aggressivo, scorretto, semplificato, povero, emotivo, banale, violento, oltre la decenza e il rispetto per gli avversari.
Più insulta e aggredisce, più i sostenitori del tribuno populista si convincono che manterrà davvero le promesse fatte. Quindi il populista, in un certo senso, è obbligato, anche una volta al potere, a mantenere una campagna elettorale permanente: aiuta a identificare il nemico, a tenere unite le fila dei seguaci e conferma loro che mantiene le promesse.
[Fonti: Timothy Garton Ash, "Is Europe Disintegrating?", The New York Review of Books, 19/1/2017. Jan-Werner Müller, What is Populism, Universiity of Pennsylvania Press; The Economist, The New York Times, The New Yorker, la Repubblica]
[Questo articolo è stato pubblicato la prima volta l'1 marzo 2017 e aggiornato il 16 marzo 2017, il 24 marzo 2017, il 5 marzo 2018].