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October 08 2017
Cinquant’anni fa Ernesto “Che” Guevara moriva lasciando alla sinistra una terribile eredità. Quella del confronto perenne con l’Idealismo. Inutile dire che, come tutte le ricchezze inaspettate o addirittura immeritate, quell’eredità è stata sprecata, se è vero che oggi da Parigi a Berlino, da Londra a Madrid passando per Atene e Roma, la sinistra appare derelitta.
Ma potrebbe sul serio una figura come quella del Che essere oggi un modello per la sinistra europea? La domanda sfiora il limite della provocazione ma nasconde lo spillo acuminato delle verità scomode; in fondo, perché no? Basta guardare con onestà intellettuale al lascito guevariano per distinguere i debiti (il marxismo ideologico) dai crediti (l’ideale anziché il potere).
Anche perché, a dirla tutta, si potrebbe addirittura ribaltare il paradigma evitando di addebitare la colpa per questo rovinoso declino della sinistra unicamente ai suoi leader. Certo, a confronto col Che, non è per niente facile difendere il carisma opaco di gente come Martin Schulz, Benoît Hamon, Pedro Sanchez e Alexis Tsipras, ma a ben guardare questa classe dirigente è il risultato di quello che gran parte della cosiddetta “base” oggigiorno domanda.
Quale programma politico potrebbero esprimere questi vertici se la gentrification da urbanistica ha sfondato gli argini è ha investito i costumi, les mœurs, come dicono i francesi? In fondo non è solo colpa loro se lo spirito d’avventura del Che oggi seduce molto meno di alcuni rassicuranti valori come il weekend, il meteo, la pensione integrativa. Tutti pessimi argomenti per una conversazione, lo sappiamo, ma evidentemente ottimi per costruire un’agenda politica di centro. Non stupiamoci però se poi l’elettore preferisce l’originale alla copia, finendo col votare Merkel, Macron e Rajoy.
Al basso profilo della base corrisponde il basso profilo dei vertici. Ed è qui che la parte nobile della parabola di Che Guevara si arena, cioè nel bisogno consolatorio di una parte del popolo di sinistra, spesso in salsa new-age.
Ma è forse proprio da qui che bisognerebbe riscoprire il gusto avventuriero e contro corrente di un uomo che giunto all’apice del proprio progetto e dei relativi onori sociali, decise di ricominciare da capo, trovando la morte, braccato e solo, in Bolivia.
In fondo, anche a giudicarlo col metro del capitalismo (o addirittura del trumpismo più sfrenato), il Che è un vincente, tutto l’opposto di un looser (perdente). Impossibile negarlo. Ha avuto successo a Cuba, con un disegno che ha dato scacco alla massima potenza mondiale portando il Socialismo a 90 miglia da Miami. La sinistra europea, cioè una carrellata di perdenti nati, non regge il confronto né con l’uomo, né col mito.
“E riparleremo dei gentiluomini di fortuna”, scriveva Hugo Pratt. Vengono in mente le foto divertite di Guevara e di Fidel Castro mentre provano i travestimenti che il Che, agente segreto fuori da Cuba, avrebbe indossato. Questo forse manca alla sinistra europea, il gusto di sognare, destrutturare la realtà tecnocratica attuale e trovare lo slancio dell’anticonformismo: tutto l’opposto di un Tsipras, partito incendiario e finito capo dei pompieri.
Così come quando Fidel prese a indossare due Rolex, e qualcuno suggerì il motivo: per sapere l’ora dell’Avana e l’ora dove si trovava il Che impegnato in missione all’estero. In questo sberleffo allo status symbol della borghesia c’è il sapore della vita vissuta, del cargo in alto mare, dei bivacchi, non certo dei polverosi seggi parlamentari trasformati in vitalizi.
Molto tempo è passato da “Dieci, cento, mille Vietnam”, lo slogan antimperialista del Che, oggi improponibile. Altre sono le attuali parole d’ordine della sinistra: laicismo, testamento biologico, diritti umani (anche quelli negati a Caracas), migranti, Ius soli; tutte puntualmente rimaste inattuate.