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February 05 2019
l palazzo della ex Zecca di Stato a Roma? Ora è gestito dai cinesi. Il palazzo di Raul Gardini a Ravenna? Ora è gestito dai cinesi. Il palazzo del Ballo del Doge a Venezia? Ora è gestito dai cinesi. Il bar Roma di Carpi, quello dove lavorava Dorando Pietri, mitico eroe della maratona crollato a un passo dal traguardo? Ora è gestito dai cinesi. E sono diventati cinesi, fra le altre, l’azienda dei trattori Goldoni di Carpi, quella che ha di fatto meccanizzato le campagne italiane; la storica azienda dei marmi Quarella di Verona, il legno Masterwood di Rimini, la metalmeccanica Motovario di Formigine e la catena di cinema Odeon&Uci. Dove a questo punto, potrebbe andare in scena un film giallo. Che però assomiglia molto a un horror.
Non ci sono infatti solo i casi famosi, rimbalzati con evidenza sui giornali, come quelli degli yacht Ferretti, della casa di moda Krizia, della Pirelli, dell’Inter o degli elettrodomestici Candy: l’ombra di Pechino si sta allungando su tutto il nostro Paese. Accade giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, quartiere dopo quartiere, fabbrica dopo fabbrica. Del resto si sa che la Cina è partita alla conquista del mondo. Il presidente Xi Jinping, definito dall’Economist l’uomo più potente del pianeta, ha varato un piano massiccio per promuovere acquisizioni nei cinque continenti. E l’Italia è un’osservata speciale. Del nostro Paese, i nipotini dei Ming adorano tutto: il canto, la musica, la moda, la Scala. E non vedono l’ora di conquistarci. A fine 2017 battevano bandiera cinese 641 imprese italiane, con oltre 32 mila dipendenti e un fatturato di circa 18 miliardi l’anno. E la conquista, nel silenzio generale, non si ferma. La Emarc, società torinese che produce componenti per le più importanti case automobilistiche? È passata ai cinesi. La Esaote, leader nel settore delle apparecchiature biomedicali? È passata ai cinesi. Moto Morini di Pavia? Idem. E così Newchem e Effechem, milanesi specializzate in farmaceutica, o Cmd, che produce motori marini turbodiesel, in tre stabilimenti in Campania. Senza contare, naturalmente, le pesanti partecipazioni cinesi in Snam, Terna, Ansaldo Energia e le quote delle banche, Eni ed Enel...
«Ben vengano» dice ora il sottosegretario allo Sviluppo economico, Michele Geraci. Il quale, però, quando non era ancora al ministero ma era solo un esperto di economia avanzava molti dubbi sugli investimenti cinesi in Italia. «I loro investimenti non portano alcun valore alla nostra economia» diceva.
Soprattutto non portano valore quando si comportano come la Zhejiang Rifa Precision Machinery Company, colosso quotato alla Borsa di Shenzhen, che nel 2015 ha acquistato la Colgar, storica azienda di Cornaredo (Milano), attiva dal 1945, assicurando: «Qui creeremo un polo tecnologico, punteremo alla crescita e allo sviluppo». Nel dicembre 2017, pochi giorni prima di Natale, è stata annunciata la chiusura della fabbrica. Alla faccia della crescita, alla faccia dello sviluppo. Eppure l’espansione cinese in Italia non si ferma. Non si stanno comprando solo le aziende. Si stanno comprando palazzi, attività commerciali, vigneti, castelli, un’infinità di bar. Ormai molti centri storici sono nelle loro mani.
«Alle aste giudiziarie arraffano tutto loro», denuncia un imprenditore fiorentino su un quotidiano. È passato ai cinesi anche uno dei più bei palazzi di Roma, con affaccio sulla scalinata di Trinità dei Monti. L’ha acquistato, insieme ad altre 11 strutture ricettive in tutt’Italia, il gruppo Ih di mister Hu. Il quale per altro già possiede: l’Admiral di Padova, quattro residence in Toscana e due hotel a Milano, in centro, da dove, sostiene, «si può toccare il Duomo» con una mano. Si può toccare il Duomo, capito? A me fa un po’ paura. Non è che ora vorranno comprarsi pure quello?
Anche a Prato, per altro, i cinesi hanno acquistato vari hotel. Ora ne possiedono sette su 17, compreso il Luxury del Macrolotto, a forma di pagoda, e il Palace, che è stato a lungo passerella dei politici. Che problema c’è? «Negli alberghi di Prato i cinesi assumono italiani» si consolano alla Federalberghi. Si accontentano di poco, evidentemente. Forse anche di diventare Federcamerieri.