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Cina: il mondo secondo il presidente Xi Jinping

Dopo la Russia la Cina? Pechino sta reagendo in modo articolato all'invio del gruppo navale americano guidato dalla portaerei Carl Vinson verso le acque della Corea del Nord. Non appena il presidente Xi Jinping ha lasciato la Florida, i media cinesi hanno iniziato un fuoco di fila di critiche nei confronti delle scelte recenti dell'amministrazione Trump.

Nel mirino è finito innanzitutto l'attacco missilistico sulla Siria, ordinato come ritorsione al presunto impiego delle armi chimiche da parte del regime di Bashar al-Assad. Si tratta di una reazione tutto sommato standard (la "non ingerenza negli affari interni" degli altri Paesi rappresenta un autentico mantra per Pechino); il tono questa volta nascondeva però malamente l'irritazione per la concomitanza tra il raid americano e la presenza di Xi negli Stati Uniti.

Ma il piatto forte della polemica è stato naturalmente offerto dall'invio della portaerei americana nelle acque davanti alla Corea. Non è un mistero che la Cina sia sempre più insofferente rispetto alla presenza militare americana in quello che considera il "suo" mare.

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Nel corso degli ultimi anni, Pechino ha avanzato rivendicazioni territoriali nei confronti di una serie di isole e atolli dal Mar del Giappone al Mar Cinese Meridionale. Si tratta di una politica irritualmente muscolare e decisamente di rottura forte con il passato. Il fatto poi che il gruppo navale della Vinson effettuerà manovre congiunte con la Marina imperiale nipponica aggiunge un ulteriore elemento di nervosismo.

Così come non sono piaciute le parole del segretario di Stato americano Rex Tillerson, che ha esplicitamente ammonito la Cina di "tenere a bada la Corea del Nord, se non vuole che siano gli Stati Uniti a farlo". Il paradosso è che anche le autorità cinesi appaiono (e sono) preoccupate per le continue provocazioni nucleari di Kim Jong-un.

E fronteggiano un classico dilemma strategico: da un lato non vorrebbero essere inguaiati dal loro intemperante alleato, dall'altro non vogliono perdere la faccia di fronte al rude monito di Washington. Proprio negli anni di Xi, la politica estera cinese si è fatta molto più intraprendente e più frequente il ricorso al nazionalismo. In parte questo può essere spiegato dalla sensazione di essere ormai lanciati verso il sorpasso nei confronti degli Stati Uniti: la Cina vuole accreditarsi come una grande potenza di dignità e prestigio (se non ancora di capacità) in nulla e per nulla inferiore all'America.

Se si guarda per esempio alle fotografie del meeting di Mar-a-Lago pubblicate dai media cinesi, non può non colpire come in tutte quelle proposte Xi letteralmente troneggi su Trump (interessante, anche da un punto di vista della forza dell'immagine, l'analisi fatta online dal New York Times).

Nella stessa direzione andavano i commenti, orientati a marcare la differenza tra la saggezza "adulta" del presidente cinese e il "dilettantismo" di quello americano che flette i muscoli per mascherare malamente le sue fragilità. Del resto anche nell'ormai famoso "discorso di Davos", del gennaio scorso, Xi aveva calibrato con cura le parole, per attestarsi come il vero campione del libero commercio internazionale e della globalizzazione a fronte di un Trump critico verso entrambi: una curiosa inversione di ruoli rispetto "alla politica della porta aperta", imposta da Gran Bretagna e Stati Uniti alla Cina durante "il secolo delle umiliazioni" (1848-1948).

Intanto le autorità cinesi hanno iniziato un'azione di pressione sulla Corea del Nord, in parte attraverso dichiarazioni che la richiamano a un agire più responsabile, in parte attraverso il rallentamento degli scambi commerciali ed energetici. Vedremo che frutti daranno: ma se il tempo davvero scarseggia, i cinesi sanno anche che troppo a lungo hanno nicchiato e loro per primi non hanno assunto una politica più severa e responsabile verso Pyongyang.

C'è pero anche una spiegazione domestica, probabilmente più importante, che sta dietro il cambio di politica cinese di questi anni e il suo maggior ricorso ai toni del più acceso nazionalismo. Da alcuni anni ormai la Cina è consapevole della necessità di incrementare la domanda interna se vuole mantenere tassi di crescita sufficienti a garantire la quiete sociale. Gran parte della legittimità del ruolo guida del Partito comunista (e di quello dell'Esercito popolare di liberazione) si gioca su questo.

Ma la crescita della domanda interna implica lo sviluppo del mercato e della sua effettiva concorrenzialità: tutte cose che stridono con un sistema di rappresentanza fondato sul monopolio politico del Partito comunista e che potrebbero alimentare una domanda di pluralismo politico e di responsabilità dei governanti verso i governati che è strisciante ma crescente.

Ecco allora l'importanza di ribadire, a un tempo, il crescente prestigio della Cina e l'eterno tentativo di soggiogarla da parte delle potenze occidentali. Quella che Xi sta giocando non da ieri è una partita per la sopravvivenza del sistema, in continuità con la lezione del padre, che fu l'architetto delle "zone economiche speciali" da cui prese avvio la rivoluzione di Deng Xiaoping e su cui nacque il sistema attuale, che ha reso tra l'altro la famiglia Xi una delle più ricche del paese. Fatto, quest'ultimo, che sottolinea come l'intreccio tra potere e ricchezza sia straordinariamente stretto in Cina.

Non poi così diversamente da quanto avviene nella Russia di Vladimir Putin (ma la tendenza all'oligarchizzazione riguarda purtroppo anche i nostri sistemi liberaldemocratici). E in effetti, analogamente a Putin, Xi è estremamente rispettoso delle tradizioni religiose del paese, della cui potenzialità positive per il regime iniziò ad apprendere quando era un giovane funzionario comunista in missione nella periferica Zhengding. Sua è una frase che la dice lunga sulla sua idea della relazione tra religione, nazione e partito: "Se il popolo perde la fede, la nazione perde la speranza e il Paese la forza". Decisamente molto lontana dalla valutazione marxiana della "religione, oppio dei popoli".

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