Economia
December 13 2016
Che cosa sta succedendo tra la Cina e gli Stati Uniti? Possibile che Donald Trump voglia rischiare di rinunciare al legame tra i due paesi per sostenere l'indipendenza di Taiwan? E dire che la nomina di The Donald era stata accolta con favore dalla Repubblica popolare, che si aspettava che la scelta di congelare la Trans-Pacific Partnership e il rinnovato interesse per la Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib) cinese avrebbero permesso a Washington e Pechino di intavolare un dialogo ancora più produttivo.
Poi è arrivata lo scambio telefonico del 2 dicembre tra Trump e la leader taiwanese Tsai Ing-wen, cui la Cina, confusa e delusa, ha cercato in un primo momento di non reagire, inquadrando lo sgarbo come un "errore di forma". Errore cui, però, Trump non ha perso tempo a dare nuova sostanza, dichiarando a Fox News "Non so perché dovremmo essere legati alla politica della 'unica Cina', a meno che non facciamo un accordo con la Cina che riguardi altre cose, tra cui il commercio", accusando quindi Pechino di non avere un atteggiamento collaborativo non solo sul piano commerciale, ma anche su quello della sicurezza regionale. Vista la portata delle accuse, la Cina non ha potuto fare a meno di dire la sua, annunciando come "qualora il principio della ‘unica Cina’ venisse messo in discussione o ostacolato, una crescita solida e costante delle relazioni e della cooperazione bilaterale tra Usa e Cina nei settori principali sarebbe fuori discussione".
I problemi economici tra Cina e Stati Uniti
Problemi economici che dividono Cina e Stati Uniti sono tanti. Anzitutto il deficit sulla bilancia commerciale, che è sempre più ampio: secondo stime americane, il commercio bilaterale ha sfiorato nel 2015 i seicento miliardi di dollari di valore, ma il saldo è nettamente a svantaggio degli Usa. Le esportazioni sono infatti ferme a quota 116 miliardi di dollari, mentre le importazioni hanno superato i 480 miliardi. Nel 1992, l'interscambio tra Pechino e Washington valeva appena 33 miliardi di dollari.
Pechino possiede poi Pechino 1.268 miliardi di dollari di titoli Usa. Il 21 per cento del debito statunitense in mano a paesi terzi e il 7,2 per cento del debito complessivo. Una cifra enorme che è sempre stata considerata pericolosa in virtù della possibilità che Pechino decida di vendere improvvisamente i suoi titoli mettendo quindi Washington in serie difficoltà.
Il nodo dello status di economia di mercato
Alla luce di questi dati la Cina emerge come parte lesa in questo confronto a due, reso ancora più complicato dal fatto che a 15 anni dall'annessione del paese nell'Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) Pechino si sia vista rifiutare in più occasione il riconoscimento dello status di economia di mercato, condizione che rende più facile per l'Occidente continuare ad imporre dazi anti-dumping alle merci provenienti dall'Oriente. Eppure, in quanto a distorsioni volontarie del mercato Pechino non è seconda a nessuno. Trump non ha tutti i torni a denunciare quanto il valore dello Yuan sia stato manipolato per ottenere vantaggi specifici per la Repubblica popolare, o che la Cina abbia iniziato a disfarsi dei bond americani vendendoli però tramite altri paesi proprio per non dare nell'occhio e non suscitare polemiche. La Cina non ha completato l'opera di liberalizzazione del suo mercato ne' ha dimostrato di poter risolvere l'attuale problema della sovrapproduzione industriale che sta danneggiando molti suoi concorrenti, soprattutto in settori come quello dell'acciaio e del carbone.
Le priorità della Cina
La Cina si è ritagliata negli ultimi anni una posizione di potere molto particolare: nessuno ha il coraggio di sfidarla apertamente per il terrore delle conseguenze che questo attacco frontale potrebbe comportare, ma contemporaneamente la Cina sta approfittando di ogni piccolo tentennamento altrui per affermare la sua potenza. La sua capacità di riavvicinarsi alla maggior parte dei paesi del Sudest asiatico, che hanno tutti firmato nuovi accordi di collaborazione bilaterali pochi giorni dopo l'annuncio di Trump della sua intenzione di non andare avanti con la Trans-Pacific Partnership lo dimostra.
Se è vero che per cambiare gli equilibri globali è necessario l'intervento di un leader forte e sopra le righe per scardinarli, è anche vero che la storia insegna come gli errori provocati da strategie avventate siano molto difficili da risolvere. Allo stesso tempo, quella di lasciare campo libero alla Cina potrebbe presto rivelarsi come una scelta pericolosa.
Gli effetti della provocazione di Trump
Trump non è uno statista navigato, ne' un presidente con un'approfondita conoscenza degli attuali equilibri mondiali. Più di una proiezione ha confermato che qualora dovesse dare seguito alle iniziative in campo economico annunciate in campagna elettorale l'America finirebbe col ritrovarsi più povera e più indebitata.
L'economia cinese e quella americana sono troppo interconnesse e una improvvisa svolta protezionista danneggerebbe entrambe. Non solo, di certo gli Stati Uniti non vogliono perdersi le opportunità di investimenti che arrivano dalla Cina ne' precludersi l'accesso a un mercato interno in rapida espansione in cui la classe media diventerà presto dominante.
La presa di posizione forte su Taipei e sulla politica dell' "unica Cina" potrebbe rivelarsi uno stratagemma molto utile per far capire a Pechino che con gli Stati Uniti non si scherza e che il paese non è più disposto a fare concessioni di nessun tipo. Difficile credere che l'intenzione iniziale di Trump fosse questa, eppure, puntando su una linea che, qualora dovesse concretizzarsi, creerebbe un danno enorme per Pechino sul piano interno e la costringerebbe a prendere decisioni difficili su quello internazionale solo per confermare di non essere disposta a negoziare su un tema così delicato, gli Stati Uniti potrebbero ritrovarsi con il coltello dalla parte del manico e ottenere quindi qualche vantaggio in più nel corso dei futuri negoziati. A patto di non esagerare con le richieste e non tirare troppo la corda: Tiananmen insegna che quando è in ballo la legittimità del Partito quest'ultimo è pronto a rischiare anche una guerra pur di non perdere la faccia col suo popolo.