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January 10 2019
E' un festeggiamento non proprio riuscito. La Cina celebra i 40 anni dalle riforme e dalle aperture inaugurate da Deng Xiaoping, tra le turbolenze internazionali del caso Huawei e i dati poco incoraggianti dell’economia. Le foto diffuse dall’agenzia Xinhua della serata di gala mostrano il presidente Xi Jinping, sorridente e che stringe le mani agli invitati, ma le incertezze esterne provocate da «unilateralismo e protezionismo», leggasi dagli Usa di Donald Trump, si stanno rapidamente trasformando da commerciali a politiche dopo la detenzione in Cina di due cittadini canadesi, in implicita rappresaglia per l’arresto a Vancouver della direttrice finanziaria ed erede del gruppo Huawei, Meng Wanzhou, su richiesta statunitense.
Non solo: sul piano interno aumentano le voci non sempre in linea con il coro di elogi per il presidente, rieletto per la terza volta e oggi senza limiti di mandato. Xi nel suo discorso di celebrazione del quarantennale ha puntato sulla continuità con il passato di riforme varate da Deng, promettendo un «miracolo che impressionerà il mondo». E quindi, davanti allo sterminato uditorio riunito nella Grande sala del popolo su piazza Tian’anmen a Pechino, ha messo in guardia: «Nessuno ci può dettare cosa deve o non dev’essere fatto». Ma un indizio significativo che non tutto proceda come previsto si ha leggendo con attenzione l’ultimo comunicato emesso dal Politburo, organo di punta del Partito con a capo lo stesso Xi. Oltre alle rassicurazioni di rito sulla crescita economica, i 25 dirigenti nazionali lasciano trapelare un cambio di registro, almeno sul piano semantico, rispetto alla fiducia del passato: «I cambiamenti nel contesto internazionale e nelle condizioni interne», si legge nella nota, «dovrebbero essere visti in maniera dialettica, sollecitando il partito a essere preparato a potenziali avversità». Novità tutt’altro che scontata.
Già l’estate scorsa, ai primi colpi della guerra commerciale con gli Stati Uniti, c’era chi riteneva necessario un cambio di passo a livello politico, economico e sociale da parte dell’amministrazione cinese, per fronteggiare i contraccolpi della disputa tariffaria. Tra questi Deng Yuwen, ex vice direttore della rivista Study Times, pubblicata dalla scuola che forma appunto i funzionari del Pcc. «Lo sviluppo della situazione potrebbe provocare opinioni sempre più diverse all’interno del partito» aveva detto poco prima del vertice informale di Beidaihe, la località balneare a poche ore di viaggio da Pechino, in cui i leader cinesi, attuali e del passato, discutono annualmente le strategie da adottare in futuro. La popolarità di Xi appariva in lieve calo: mentre a Pechino occhi vigili notavano una diminuzione dei manifesti con la sua immagine trionfante, circolavano rumors di una lettera inviata al presidente cinese, firmata da diversi anziani del partito che chiedevano di riconsiderare le scelte fatte in economia e politica estera.
Già alla fine dell’estate i messaggi di critica dagli eredi dell’aristocrazia rossa sono arrivati più forti e chiari. «Dobbiamo cercare la verità dai fatti, mantenerci lucidi e sapere qual è il nostro posto» ha detto in un discorso Deng Pufang, che è proprio figlio dell’architetto delle riforme cinesi Deng Xiaoping celebrato in questi giorni, e presidente onorario della Federazione cinese delle persone disabili. Le incertezze a livello internazionale «sono in crescita», ha proseguito, e «la cosa più importante al momento è affrontare in modo appropriato le questioni della Cina». Frasi che suonano come un attacco alle ambizioni in politica estera e di espansione militare del presidente cinese. Un altro membro dell’élite del Partito, Hu Deping, figlio dell’ex segretario generale del Pcc Hu Yaobang, ha invece criticato Xi per il tentativo, a suo avviso, di stritolare le imprese private nella competizione con le grandi aziende di Stato. Senza un’apparente correlazione a quest’accusa, alla fine di ottobre Xi ha rinnovato il sostegno alle imprese private. «Ogni atto che neghi o indebolisca l’economia privata è sbagliato» ha scritto il presidente cinese in una lettera in cui incoraggia le aziende non statali a lavorare «per un domani migliore».
Sull’oggi pesano soprattutto i dati dell’economia, che nel terzo trimestre 2018 ha segnato un rallentamento al 6,5 per cento di crescita su base annua (+1,6 su base congiunturale, in calo dello 0,1 rispetto al dato del secondo trimestre 2018, dopo il ricalcolo operato dall’Ufficio nazionale di statistica). Così le Borse mondiali hanno virato al ribasso dopo gli ultimi dati pubblicati venerdì scorso da Pechino, per il rallentamento delle vendite al dettaglio -con una crescita all’8,1 per cento a novembre rispetto allo stesso mese del 2017, contro l’8,6 di ottobre- e della produzione industriale, al 5,4 su base annua il mese scorso, contro il 5,9 di ottobre.
A offuscare le sorti progressive sulla seconda economia del mondo è poi la notizia pubblicata dal South China Morning Post di Hong Kong che sempre dall’Ufficio nazionale di statistica di Pechino è arrivato lo stop alla provincia sud-orientale del Guangdong, base manifatturiera del Paese, per la compilazione dell’indice Pmi, che calcola il livello del settore manifatturiero. L’ultimo dato pubblicato risale a settembre scorso e segnala una lieve espansione, a quota 50,2, ma non ci sono segnali dei dati di ottobre e novembre: un’assenza che ha turbato gli operatori e lascia intravedere in futuro un ulteriore rallentamento dell’economia.
Realizzare il sogno cinese di rinnovamento nazionale «non sarà una passeggiata nel parco». Con queste parole si era comunque espresso Xi lo scorso anno, davanti ai 2.300 delegati giunti a Pechino per il 19° congresso del Pcc che lo ha consacrato leader senza evidenti successori, lasciando intendere la possibilità di turbolenze che sono emerse presto: il governo cinese ha dovuto abbassare i toni su un piano cruciale, il «made in China 2025» per lo sviluppo del manifatturiero avanzato, inviso all’amministrazione statunitense; la stessa iniziativa lanciata da Xi nel 2013, la Belt and Road per la connessione infrastrutturale di Asia, Europa e Africa, ha generato dubbi e resistenze all’estero e non è esente da critiche sul piano interno.
L’anziano accademico Sun Wenguang, spesso critico contro il governo, in un saggio ha chiesto di convogliare allo sviluppo della Cina i fondi destinati al maxi-progetto: pochi giorni dopo, l’84enne ex docente universitario è stato interrotto dall’arrivo della polizia durante un’intervista alla rete statunitense all’estero Voice of America che stava tenendo a casa sua, a Jinan. Secondo alcune testimonianze, sarebbe stato detenuto per giorni, assieme alla moglie, in alcuni alberghi della città.
Una sorte simile alla sua, anche se a causa di fattori molto diversi, sarebbe toccata anche all’attrice Fan Bingbing, la cui scomparsa per mesi dai social ha generato forti speculazioni: accusata di evasione fiscale, le è stata inflitta una multa da oltre 110 milioni di euro (884 milioni di yuan), e al ritorno on line la star si è dovuta scusare con il suo pubblico.
Più complicato per Xi, però, è disinnescare le mine vaganti all’estero. L’immagine del Paese non è uscita bene dall’arresto del capo dell’Interpol, Meng Hongwei, vice ministro per la Pubblica sicurezza dal 2004, con l’accusa di corruzione: l’organo di cooperazione internazionale di polizia ha detto di non essere stato informato con anticipo della mossa dalle autorità cinesi. Meng si è dimesso «con effetto immediato» dopo la scomparsa denunciata alla polizia francese dalla moglie, che in due interviste shock ha dichiarato di essere stata minacciata e di temere per la vita del marito. «Nessuno è al di sopra della legge» è stato il secco commento secco del ministero degli Esteri di Pechino. Altri che volessero seguire le sue orme sono avvisati.
L’ultima minaccia per il potere centrale arriva ancora una volta dagli Stati Uniti. Dallo scorso anno, il Partito comunista cinese conta tra i suoi più irriducibili oppositori un chiacchierato uomo d’affari in fuga dalla giustizia cinese dal 2014: Guo Wengui, o Miles Kwok, secondo l’altro nome con cui è noto. Dal suo attico a Manhattan, il miliardario ha puntato il dito contro gli alti papaveri del partito, accusandoli di corruzione: tra i suoi bersagli c’è anche l’intoccabile Wang Qishan, ex capo della Commissione per l’ispezione disciplinare che indaga sui funzionari corrotti in Cina, e oggi vice presidente cinese per volere di Xi. Le sue accuse sono state spesso minimizzate o ignorate, ma dopo un periodo passato dietro le quinte, Guo è tornato alla ribalta. In una conferenza stampa a New York, ha illustrato il suo nuovo piano: dimostrare la mano del Pcc dietro ad alcuni eventi frettolosamente scomparsi dai radar, a cominciare dalla morte del presidente della conglomerata Hna, Wang Jian, dopo una strana caduta nei pressi di una chiesa in Provenza.
Dalle prime indagini non sono emerse piste che lascino pensare a un omicidio, ma per gli investigatori assoldati da Guo, le telecamere a circuito chiuso della zona avrebbero ripreso «elementi sospetti» tra le guardie del corpo del manager. A dar man forte a Guo, sul palco, è arrivato anche un amico: Steve Bannon. Con l’ex chief strategist della Casa Bianca, il tycoon cinese ha firmato un accordo per la nascita di un fondo da cento milioni di dollari per indagare sui casi sospetti della Cina. A capo del fondo siederà lo stesso Bannon: è «una questione di dovere» che non ha nulla a che fare con l’amministrazione Trump, ha detto. «Entrambi disprezziamo il Partito comunista cinese», gli ha fatto eco Guo, citato dal New York Times. «È così che siamo diventati partner».
La credibilità del miliardario in fuga dalla giustizia cinese resta bassa, ma la sua stella, lentamente, potrebbe tornare a brillare, secondo il quotidiano Usa che gli ha dedicato di recente un lungo articolo. Grazie all’aiuto di Bannon, Guo è stato introdotto negli ambienti che contano dell’ala più conservatrice di Washington, e le sue accuse al Pcc potrebbero trovare orecchie inclini all’ascolto. Un’altra possibile spina per la corona dell’imperatore Xi.
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