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November 01 2024
«Abbiamo lasciata, in poco più di una generazione, una millenaria civiltà di contadini e di pescatori. Per questa civiltà che è ancora la civiltà presente nel Mezzogiorno, l’illuminazione di Dio era reale e importante; la famiglia, gli amici, i parenti, i vicini erano importanti; gli alberi, la terra, il sole, il mare, le stelle erano importanti». Queste parole non provengono da un nostalgico sudista ma da un imprenditore del nord proiettato nell’avvenire: le pronunciò Adriano Olivetti a Pozzuoli nel 1959. Poco dopo, quella millenaria civiltà sarebbe sparita. Ma in quel tempo i contadini erano ancora la maggioranza della popolazione al Sud. Chi è nato negli anni Cinquanta ancora ricorda, come il sogno di un bambino, quel mondo popolato di contadini, di «traini», di braccianti che vanno in piazza per essere ingaggiati; ricorda le loro case, i loro corpi piegati dalla fatica, le loro mani segnate dal duro lavoro. E poi il loro modo ruvido di essere, di parlare, di tacere, di camminare. Che fine ha fatto la civiltà contadina, ci sono ancora tracce, qualcosa riaffiora col declino della modernità industriale che ne aveva preso il posto? No, siamo passati dalla preistoria contadina alla post-storia tecno-globale; di quel mondo ora è scomparsa pure l’impronta mentale e culturale. «Un mondo serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; quella terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive nella sua miseria e nella sua lontananza, la sua immobile civiltà su un suolo arido, alla presenza della morte». Così scriveva un altro piemontese costretto a Sud, Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli.
Un ritratto tutt’altro che idilliaco di quel mondo, di cui veniva evocata la miseria. Forse i suoi occhi di confinato rendevano più triste quel mondo; ma la nostalgia a volte edulcora ricordi di una vita aspra, intrisa di amarezza e rassegnazione. Eppure, evocando agli inizi del Novecento la fine della civiltà contadina, Charles Péguy la definì «il più grande avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo». Una rivoluzione copernicana, dove la terra non era il pianeta ma il suolo, i suoi frutti, la sua coltivazione e i suoi abitanti col loro modo di vivere. Quel vivere comunitario in sintonia con la natura, le stagioni, i suoi ritmi, le sue benedizioni e le sue sciagure, che a volte sono assai simili, differiscono solo per quantità o per tempismo... La pioggia e il sole, benedetti e maledetti... Nel pieno della modernità industriale ci fu chi confessò di preferire quel mondo antico che precedeva la mutazione antropologica degli anni Sessanta e Settanta. «È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango» superflui rendono superflua la vita...». Resta però da spiegare perché la rimpianta civiltà contadina sia stata così velocemente e così facilmente cancellata e i suoi stessi abitatori si siano così docilmente e avidamente consegnati alla società dei consumi.L’«età del pane» è una bellissima espressione che si riferisce all’infanzia ma anche a quel mondo antico, ancora fermo all’età della fame. Il pane indica il bisogno elementare di una società povera e semplice, com’era quella fiorita intorno alla civiltà contadina. Chi è nato negli anni Cinquanta al Sud ricorda i bambini per strada, a volte scalzi, che stringevano in mano un tozzo di pane, con la mollica inumidita dalla loro saliva. Quel nutrimento basilare, quella dotazione delle madri ai loro piccoli raccontava una condizione di miseria appena sedata dai morsi più urgenti.
Parlando della civiltà contadina, ci siamo riferiti al Sud ma abbiamo citato solo autori settentrionali. Bisogna leggere Corrado Alvaro, Elio Vittorini, Rocco Scotellaro, Tommaso Fiore e altri, per farsi raccontare da uomini del Meridione cos’era la civiltà contadina. Il calabrese Alvaro, per esempio, così commenta la fine della civiltà contadina: «Non avrei mai pensato che ci sarebbe toccato vivere al tramonto di un mondo. Proprio ti chiedo scusa. Certo, è ridicolo che io ti chieda scusa del tempo, del secolo, dell’epoca, del mondo come va. Ma ognuno è responsabile del suo tempo». Ma per Vittorini quella cultura contadina sopravviveva sotto traccia. Scotellaro narrava lo strano impasto di schiavitù e libertà nella vita dei campi: «Ho perduto la schiavitù contadina, / non mi farò più un bicchiere contento, / ho perduto la mia libertà». Per Scotellaro la cultura ufficiale «sconosce la storia autonoma dei contadini, il loro più intimo comportamento culturale e religioso» nel suo formarsi e modificarsi. Egli paragona i contadini all’uva puttanella che ha acini maturi ma piccoli che devono lottare con l’altra uva dagli acini più grandi per sopravvivere. Dov’è finito quel «popolo di formiche» e di «cafoni all’inferno», per dirla con Fiore? È come svanito, si è rifugiato nei ricordi. «Dopo l’imbrunire ci sediamo a cena, scodella tra le gambe, intorno al rosso focolare. Appena, poco prima, qualche lieve campano di vacche... gli operai si godono in silenzio il fuoco. Subito m’addormento come un bambino, per svegliarmi il domani, fra lo stesso suono di campani, come una carezza». Il sogno della civiltà contadina.