Lifestyle
May 25 2013
di Michel Martone*
Ci sono parole, quali competizione, eccellenza, impegno, fatica, risultato, valutazione, che nel dibattito politico sono assenti. Ce ne sono altre, quali merito, trasparenza, professionalità, produttività, ricambio generazionale, che sono diventate vuote. Tutti le pronunciano ma nessuno sa più cosa significhino. Al punto che quando si parla, per esempio, di ricambio generazionale molti finiscono con il ritenere che in Parlamento sia meglio eleggere un giovane, un qualsiasi giovane, magari fuoricorso, piuttosto che un politico esperto che ha già maturato un’importante esperienza professionale. Così l’età finisce per far premio sul curriculum, l’aspetto fisico sui risultati conseguiti, la novità sull’esperienza necessaria a prendere decisioni nell’interesse comune. Credo che questo sia il frutto avvelenato di un sistema politico che per troppi anni si è crogiolato nell’immobilismo sociale per infine fare del Porcellum la sua legge elettorale. Così l’eccellenza che ha fatto grande l’Italia nel mondo ha cominciato ad annacquarsi nella frustrazione. E, di cooptazione in cooptazione, parole come merito e competenza hanno progressivamente perso di senso, finché alle ultime elezioni la frustrazione degli esclusi ha premiato formazioni politiche che hanno fatto della novità dei candidati il loro principale atout elettorale. Due fronti contrapposti che hanno entrambi le loro buone ragioni (perché per governare serve l’esperienza ma a governare non possono essere sempre gli stessi esperti) ma che ora rischiano di rimanere vittima della stessa tendenza posto che vivono tutti nello stesso Paese. Un Paese che si è potuto permettere di dimenticare il significato di quelle parole perché per troppo tempo ha utilizzato la propria sovranità per chiudersi al resto del mondo ed è riuscito a mantenere i propri standard di benessere solo accumulando un immenso debito pubblico.
Ora che i confini nazionali sono crollati, che il fiscal compact ci impone di ridurre il debito, che la classe politica si è frantumata in tre minoranze di blocco, noi siamo di colpo chiamati a contrastare la concorrenza di 40 milioni di persone che ogni anno entrano nel mercato del lavoro globale, aspirano al nostro tenore di vita e sono pronti a competere per conquistarlo. Per farlo credo che l’unica via sia quella di cercare di riscoprire senso e sostanza di quelle parole, al di là dei facili pudori ugualitaristi. Magari ricominciando dall’articolo 34 della Costituzione nella parte in cui dispone che i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di accedere ai gradi più alti degli studi. Non mi sembra che voglia dire che, come sostengono molti, nel nostro Paese il diritto allo studio universitario debba essere garantito sempre e comunque, anche fino al quindicesimo anno fuoricorso. Piuttosto ci ricorda che, soprattutto in tempi di crisi, se vogliamo aiutare chi realmente ne ha bisogno, non possiamo più finanziare con le risorse dello Stato chi non si laurea perché non ha voglia di studiare.
*avvocato, ex viceministro, ordinario di diritto del lavoro dell’Università di Teramo