Per i Club Dogo live a Milano possiamo dire buona la prima? Certo, ma si può fare (un po') di più. Nella data d'esordio del "Noi siamo il Club" Tour 2012 del 16 giugno 2012, abbiamo assistito a un concerto molto atteso dai fan, molto partecipato e soprattutto da primi in classifica Fimi con un album omonimo, il più venduto in Italia nella settimana d'esordio. L'attesa, per il caldo e per passione, è stata spasmodica.
Questo è un momento cruciale per il trio, centrale soprattutto quando i Dogo ormai nelle grazie della musica commerciale, che fa parlare di se stessa, che vende, è musica che fa crescere i giovani costruendo l'immaginario collettivo di una generazione addirittura nei bambini, già vestiti come loro (e numerosi sotto al palco). Un successo consolidato che per loro è "un meglio tardi che mai", per noi che parliamo a tutti è solo un inizio. Ed è ora infatti che vanno gettate le ancore più grosse.
Un'ora e mezza di live (anticipato da un Ensi in formissima e non è facile ironia) che ha lasciato molto campo ai brani di "Noi siamo il club", spaziando nei brani più celebri e amati del loro repertorio, 10 anni di attività e sei album ufficiali che hanno trasformato il Carroponte di Sesto San Giovanni in un blocco unico di partecipazione ma soprattutto di forza, caratteristica molto viva in chi ama il rap, molto più viva verso chi il rap lo tratta con i guanti. E non con la mazza chiodata come (alcuni) altri.
Loro si dichiarano "non puristi da sempre", ma di fatto il concerto a cui abbiamo assistito di "poppettaro" non aveva proprio niente, nemmeno quando sul palco è arrivato una figura di confine come Giuliano Palma per cantare "PES", trasformando un originale featuring del disco in uno dei momenti più esaltanti dello show.
Sul palco il trio e quattro lettere retro illuminate sullo sfondo (D - O - G - O), rime sicure e atteggiamento "Zarrogante", parola inesistente ma che è definisce qualcosa di abbastanza nuovo nel rapporto cantante-fan: il ragazzo che viene dal basso, che è uscito o che è dentro lo schifo fino al collo, guarda ai Club Dogo come a esempi di rispetto di chi ce l'ha fatta in modo pulito. Ed è fiero di portare addosso l'energia della periferia, l'invadenza del tatuaggio che arriva fino al collo, la devozione verso chi (finalmente) parla la loro lingua.
Tra la dovuta auto celebrazione ("Abbiamo dimostrato che niente è impossibile", urla Jake La Furia sul palco) e un po' troppi inviti a comprare il cd in modo legale, oltre la scaletta niente sembrava costruito, nulla appariva pensato. L'improvvisazione è il segreto del successo di chi sta nell'hip hop, ma la costruzione di uno spettacolo che sia di livello nella musica ma che si ispiri anche all'intrattenimento che offre il rap in America, dai Dogo prima o piu lo pretendiamo, visto che nessuno in Italia ancora lo fa.
A un certo punto, nel bel mezzo del divertimento nella fase più "party" del concerto (da "Chissenefrega (in discoteca)" passando per "Spacco tutto"), parte il classico della dance techno "Rock The House", suonato a sorpresa a palco vuoto, come una reazione contro un'opinione diffusa tra gli hater: "Per fare soldi si sono messi a fare musica commerciale secondo me i veri Dogo erano quelli di prima quelli che facevano rap". Falso, falsissimo. E loro ci tengono a precisarlo con un gesto simbolico.
Ritornano solo per il lancio delle magliette, senza saluti ufficiali. Quasi per dire "il meglio deve ancora venire e non sarà adesso e in questo momento". Ecco: quel meglio un po' ce lo aspettavamo tutto sabato sera. Ma se volevano farci penare e lasciarci con il desiderio di rivederli ancora (alle Olimpiadi di Londra, si dice in attesa di smentite ufficiali), bhé, ci sono comunque riusciti.
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