Social network
May 13 2016
Da qualche tempo a questa parte trasferirsi in una grande città può assomigliare a un incubo. A meno che tu abbia una situazione lavorativa (ed economica) molto stabile, il più delle volte ti troverai a fare lo slalom tra monolocali invivibili, sottoscala cammuffati, padroni che sembrano secondini e, soprattutto, coinquilini imprevedibilmente insopportabili.
Questa cosa è particolarmente vera nelle metropoli come San Francisco, Londra, New York, dove i quartieri sono in continuo mutamento e la gente cambia più case che abiti. Ma siccome dove c’è un’esigenza prima o poi spunta una startup, c’è già chi ha pensato a risolvere questo problema dall’alto.
Nel 2014, un ragazzo di 23 anni di nome Tom Currier cominciò ad accendere mutui a San Francisco con l’idea di trasformare alcune case in un nuovo spazio di coabitazione.
La sua startup, Campus, si occupava di gestire l’arrivo di nuovi inquilini (chiamati “membri”), i quali al posto di una semplice abitazione trovavano uno spazio curato, arredato e gestito in cui non dovevano preoccuparsi di chiamare idraulici, controllare i serramenti, pulire gli spazi comuni etc. Campus faceva già tutto questo, in più, ogni membro aveva la possibilità di spostarsi con facilità da un’abitazione all’altra, scegliendo tra le 30 che Campus gestiva tra la California e New York. Il tradizionale rapporto locatore-affittuario era stato sostituito da un concetto nuovo, in cui ogni inquilino era membro di unacomunità.
Il progetto di Currier è naufragato nel giugno del 2015, ma il sasso ormai era stato lanciato. Negli ultimi mesi diverse startup sono intervenute a colmare il vuoto lasciato da Campus: a Boston c’è Krash, che si definisce una sorta di “social network fisico”, e che punta a creare l’ambiente perfetto per tutti quei creativi, imprenditori e innovatori che, proprio per via delle loro condizioni lavorative in continuo mutamento, cercano un posto in cui alloggiare temporaneamente e, possibilmente, persone con cui interagire produttivamente; a New York c’è Common, una startup che sta rivoluzionando il concetto di coabitazione in una città dove un terzo delle abitazioni è occupata da un solo inquilino.
La definizione di “social network fisico” non è sbagliata: queste startup si stanno inserendo nel solco di una tendenza sociale che solo vent’anni fa era inconcepibile. L’età media in cui le persone si “sistemano” (leggi: mettono su famiglia, comprano casa, decidono dove piantare radici) si sta alzando sempre di più, il che si traduce in sempre più “eterni-adolescenti” che navigano a vista in una situazione sentimentale, lavorativa e residenziale costantementeprecaria. I dati più recenti rivelano che il numero di persone di età compresa tra i 18 e i 35 anni che vive con almeno un coinquilino è raddoppiata dagli anni ’80 a oggi. Questo significa spesso e volentieri che in un edificio si ritrovino a coabitare persone che non si conoscono, non si vogliono conoscere e, tendenzialmente, mantengono a tra loro un atteggiamento di cortese fastidio. Startup come Common, puntano a risolvere tutte le questioni che potrebbero portare i coinquilini a litigare, ponendo un terreno fertile per lo sviluppo di un senso di comunità.
Una buona spiegazione di come funzioni una startup di co-living si legge sul sito di Splittable, una compagnia nata di recente a Londra: “Vivere con altre persone a volte fa schifo. Mentre invece potrebbe essere bellissimo. Abbiamo lanciato Splittable per eliminare le conversazioni imbarazzanti su denaro e altre cose che possono causare stress tra coinquilini.”
Uno dei punti di forza di Splittable consiste nell’avere sviluppato un’app che consente di tenere traccia dei pagamenti e delle scadenze di ogni coinquilino, permette di vedere quanto e per cosa hanno pagato i coinquilini precedenti, e crea una rete per mantenersi in contatto con gli altri occupanti in caso sorga qualche problema.
Oggi il numero di startup (o iniziative single) che si occupano di co-living si sta diffondendo a macchia d’olio, sia negli Stati Uniti che in parte dell’Europa, i costi non sono sempre accessibili (Common arriva a far pagare un “membro” 1800 dollari al mese per una stanza), ma la qualità del servizio è tale che tutte queste compagnie vengono quotidianamente sommerse di richieste.
Di fronte a questo scenario, c’è chi ipotizza che di qui a qualche anno il co-living prenderà piede al punto da rendere normale condividere appartamenti anche tra famiglie. Nel caso questo improbabile scenario si avveri, c’è già chi sa come gestirlo.