Come cresce una start-up tra Silicon Valley e Pavia

Con la disoccupazione in Italia al 13 per cento, fa un certo effetto entrare nel sito di Funambol, azienda californiana di software, e scoprire che sono aperte sette posizioni per ingegneri e sistemisti con sede di lavoro a Pavia.

Provare per credere. Ma come? Questo non quadra con la teoria che gli altri sono sempre più bravi. Che la burocrazia e le tasse soffocano ogni possibilità di investire in Italia. Che il nostro Paese è destinato al declino.

Non si tratta di un caso, ma di una strategia per Funambol, ispirata dal suo fondatore Fabrizio Capobianco e suffragata dal successo del modello di business. Silicon Valley è l'ambiente perfetto per far sviluppare un'azienda tecnologica. Questo ecosistema sta alle startup come la Pontina sta ai pomodori, ci diceva un manager romano. Per un'azienda di tecnologie dell'informazione che ha un prodotto che tira, è il posto giusto per diventare grande. Ma ciò non significa che debba tagliare i ponti con il Paese di origine, specie se questo è l'Italia.

Fabrizio è un quarantenne valtellinese dal piglio diretto e cordiale, patito della Juve, con la tendenza a vedere "the big picture", il quadro ampio delle cose, e a mantenere una prospettiva di lungo termine. La sua teoria, che lui ha testato facendo soldi a palate, è che l’Italia ha un vantaggio competitivo nel software, che non abbiamo ancora cominciato a sfruttare come Sistema Paese. Non solo moda, alimentari, design, e macchinari: siamo forti anche come programmatori e informatici. Al punto che potremmo diventare come Israele, che su questo ha costruito il suo successo economico, se solo scommettessimo sulle sinapsi cerebrali dei nostri ingegneri, dal Nord al Sud.
"Siccome siamo un Paese di creativi”, dice Capobianco, "sforniamo ingegneri che sono in grado di programmare in maniera agile e non convenzionale. Gli ingegneri italiani sono il top del top”.

Il segreto per valorizzare questo capitale umano, secondo il modello di Funambol, è di venire in Silicon Valley con un prodotto serio, farlo scoprire e finanziare dai californiani, lanciarlo globalmente da San Francisco e usare l’Italia come come laboratorio di cervelli per alimentarlo. Israele, in assenza di un mercato interno, ha fatto questo da decenni ed è oggi al vertice del mondo high-tech.

Capo, come lo chiamano i suoi, nasce professionalmente a Pavia nella seconda metà degli anni Novanta quando crea una società per costruire siti web. È dura convincere che il sito web serve nel momento in cui Internet è ancora un lusso. Un giorno un potenziale cliente gli dice chiaro e tondo che è troppo giovane per essere preso sul serio. Capisce a quel punto che per spiccare il volo deve provare altrove.

Funambol nasce a fine 2002 a Pavia, quando con il socio Stefano Fornari mette a punto un software che prefigura il mondo del “cloud” in cui viviamo (consente di salvare nella nuvola, da dispositivo mobile, foto, video e canzoni per poi accedere da ogni altro strumento).
Per il decollo del progetto la strada maestra è Silicon Valley. Fabrizio viene a San Francisco e fa la dura vita dello “startupper”, cercando di raccogliere investitori disposti a credere alla sua idea. Nel 2004 il primo investitore potenziale sta per firmare un round di finanziamento. All’ultimo minuto chiede una quota troppo alta, Capo rifiuta pensando di negoziare e l’investitore se ne va. “Ci siamo trovati senza soldi,” racconta, “con gli avvocati da pagare e la sensazione di una morte imminente. Invece tre mesi dopo è arrivato un altro investitore, meglio del primo.” Sono i primi 5 milioni di dollari. Il resto è cronaca: in questi anni ha raccolto 35 milioni di dollari, raggiunto decine di milioni di utenti nel mondo, assunto 100 persone di cui 50 a Pavia, firmato contratti con grandi utility telefoniche come Telefonica. Si prevede che il fatturato raddoppi nel 2014. Prima o poi dovrebbe arrivare la quotazione in borsa.
Fabrizio 2.0 nasce nel 2010 quando lascia la posizione di amministratore delegato di Funambol, rimanendo presidente del board, per creare una nuova azienda. Guarda al mercato pubblicitario: il 15% è su internet e l’85% è ancora legata alla TV. “Se Google è diventata il gigante che conosciamo col 15%, dobbiamo provare a intercettare quell’85% rimanente,” afferma. Da questo ragionamento e dal desiderio di poter parlare al vivere in diretta col padre in Italia e col fratello in Mozambico le partite della Juve, nasce TOK.tv: uno strumento che ricrea un salotto virtuale e globale in cui i tifosi – ma in generale gli spettatori della TV – parlano e commentano insieme partite di calcio, baseball e qualsivoglia spettacolo.
Questa volta i finanziamenti sono arrivati alla svelta. La Juve gli ha gia’ affidato la creazione della app per i suoi tifosi. Gli utenti sono oltre 400.000.
E Capobianco si aggira per le citta’ italiane alla ricerca di una nuova sede italiana di R&D: amministratori locali, tenete d’occhio quest’uomo, vale oro.
Sono sicuro che molti si staranno chiedendo: se è vero quello che Capobianco asserisce – e cioè che possiamo essere la nuova Israele del software –come facciamo a scalare dai 50 ingegneri di Pavia ai 5.000 o ai 50.000 che ci servono per dare lavoro ai nostri ragazzi?

Risposta: prendendo sul serio Silicon Valley come piattaforma per le nostre imprese tecnologiche. Creando un canale costante di giovani imprenditori verso questa parte del mondo che abbia i pre-requisiti per poter fare il botto. Generando un carnet di storie di successo che rimbalzino nei media globali e cambino la percezione dell’Italia high-tech.
Per fortuna, molti ci stanno lavorando. Anche nel mondo del venture capital italiano qualcuno ha cominciato a prenderne nota.

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