Lifestyle
June 15 2020
Otto grandi chef svelano a Panorama i segreti dei loro nuovi menù. Per poter mantenere il distanziamento sociale anche ai fornelli, lasciando inalterati gusto e creatività gourmet. Ecco i piatti della riapertura.
L'ultima volta che sono andata al ristorante prima della chiusura Covid era il 20 febbraio. L'occasione era un mezzogiorno con amici estimatori della cucina di Antonio Guida al Seta del Mandarin Oriental a Milano. Abbiamo ordinato liberamente e ghiottamente da una carta con 23 piatti tra cui scegliere. Sono tornata pochi giorni fa per la riapertura. Cucina aperta solo a cena, i 50 posti sono diventati 25, i cuochi da 14 sono passati a 7, i piatti sono ridotti a 15.
Delusa? Nient'affatto, non solo perché la corte esterna nel cuore di Milano con più spazio di cui godere è un privilegio, ma anche perché durante la chiusura lo chef ha maturato piatti più ricchi di sapori diretti. Ho ordinato il Carciofo croccante, fagiolini e pistacchio con salsa al frutto della passione e l'Astice blu arrosto con zabaione al passito melanzane e tè, uno dei classici che gli habitué scalpitavano di riassaggiare. Chi immaginava di trovare preparazioni e presentazioni meno complesse sbagliava.
La pensa allo stesso modo Andrea Berton - che celebra la riapertura con un patriottico Pomodoro pelato con basilico (ma è un San Marzano svuotato, la polpa in crema, appoggiato su una «terra» di crumble e spuma di pomodori verdi) - il quale pur avendo dimezzato i coperti e ridotto il personale in cucina ha mantenuto invariato il numero degli addetti alla sala, cui spetta il compito di far sentire sicuri e coccolati gli ospiti guidandoli attraverso tre menu degustazione e il Menu Voucher (mille quelli venduti) per due persone al costo di una, lanciato durante la chiusura.
Si può obiettare: facile per chi ha le spalle larghe. E la miriade degli altri? I numeri parlano chiaro: il costo del lavoro che negli altri settori è del 20 per cento con un profitto del 18, nella ristorazione è del 40 con un profitto del 5, dichiara Lino Stoppani presidente della Fipe (Federazione Italiana dei Pubblici Esercenti). E quindi sono in molti a chiedersi se riaprire o no.
I più creativi surfano l'onda. Sempre a Milano, Yoji Tokuyoshi, uno dei Bottura boys sparsi nel mondo, che fa cucina giapponese con ingredienti italiani, ha per ora trasformato il suo ristorante di alto profilo in Bentoteca: cinque piatti, sei tavoli e un separé per regalare «meno formalità e più sorriso» con creazioni giocose come il Panda Burro e Acciughe.
A Firenze, città turistica, Fabio Picchi, cuoco e poeta, mattatore di realtà multiple, riaprendo il Cibreo marcia al 30 per cento. Al tavolo tutte coppie, «sicché ho trasformato la mia braciola da un chilo nella braciolina della mi' nonna, alta un centimetro e mezzo con olio, burro, limone e erbette. E ho messo in carta l'insalata russa-fiorentina, che non avevamo mai tempo di fare, con le barbe rosse, i pisellini, i capperini sottaceto».
Nell'altra città-monstre turistica, Roma, Alex Pipero, specialista in «piatti italiani d'alta cucina», giura in una ripresa alla grande dall'autunno. Nel frattempo il lavoro in sala è al 35 per cento «anche perché in molti resta radicato il terrore del contagio malgrado l'osservanza rigorosa delle norme». Perciò ha attivato un triplo servizio «a casa tua»: un kit con istruzioni per la carbonara sicché, è questa la vera notizia, ci si può appropriare dei segreti di uno dei piatti più famosi della Capitale; poi un delivery consegnato da un cameriere in uniforme; infine una cena con servizio completo, dallo champagne alla mise en place (mille euro per quattro persone. Ma si vive una volta sola).
D'altra parte l'ansia per le lunghe soste ai tavoli è palpabile. Occhiate severe agli altri, al servizio, come sarà l'igiene in cucina? I ristoratori se ne rendono conto. Moreno Cedroni a Senigallia, appena ripartito alla Madonnina del Pescatore con tutto il suo staff e i tre menu che aveva a febbraio - Classico, Vicino alla tradizione e Degustazione di dieci portate - è all'ascolto delle nuove esigenze, tra cui l'eventualità che le tre ore canoniche seduti al tavolo risultino ansiogene anziché piacevoli. E allora accorcerà, semplificherà, modificherà.
Su una cosa tutti sono d'accordo: fare in modo che le cose belle della vita restino intatte. La misura di quanto ci piace e ci è piaciuto andare al ristorante lo dicono i numeri: negli ultimi dieci anni, precisa Lino Stoppani, sono nate 300 mila imprese che sono valse 20 miliardi di acquisti nell'agricoltura. Ecco allora un percorso di sostegno reciproco che i cuochi più intelligenti hanno messo in atto: più Italia nel piatto. Ogni regione, ogni paese, ogni campanile ha i suoi campioni. A Cervere, Piemonte stretto, all'Antica Corona Reale, lì da 206 anni, i fornitori-agricoltori, allevatori, produttori sono «di vicinato». Fragoline di Tortona, anguille di Centallo, porcini della Val Sangone, capretto di Roccaverano. Senza rinunciare, noblesse oblige, al piccione del Périgord.
Altri puntano a mettere a proprio agio il cliente «normale». Alla Peca, a Lonigo, mentre si chiedono se a Verona l'Arena con la sua corte di facoltosi gourmet, riaprirà, l'Anguilla in forno di braci ardenti, piatto bandiera, nella versione post Covid arriva con salsa di balsamico e ginepro, anziché con aceti giapponesi e guava. Va oltre Irina Stancanella, un apprendistato da Niko Romito: nella sua trattoria di qualità a Savigno, sulle colline bolognesi, vuole che gli avventori, reduci da tre mesi di incerta pratica di pentole, dicano «ho mangiato come a casa mia, ma meglio», e gli fa ha un vitello tonnato esclamativo e i suoi irrinunciabili tortellini, togliendo un euro a tutti i piatti «perché i problemi di soldi non sono solo nostri». Eppure non è questo il punto. Il punto è che il fine più vero dell'andare al ristorante, la convivialità, è andata, almeno per ora; perduta non solo tra mascherine e paretine, ma anche nella mancata condivisione di piatti prima comunitari. Per dire: la Torta delle Rose dei Camanini a Lido 84, a Gardone, a porzione, non è la goduria fai da te dell'averla intera al centro. Ma non è solo il pubblico a patire le nuove regole. Anche i cuochi soffrono di mancanza d'affetto. Gennaro Esposito alla Torre del Saracino a Vico Equense, vorrebbe abbracciare i suoi clienti ritrovati e sedersi come prima al loro tavolo per chiacchierare. Non può.
Una disgrazia? E se invece, come dice il proverbio cinese, fosse una fortuna? È già successo dopo il crack del 2008 quando dalla chiusura dei grandi ristoranti è nata la qualità senza fronzoli della Bistronomia. Ne è convinto Pino Cuttaia, riemerso alla Madia a Licata: «Il Covid è il mio dopoguerra. Facendosi il pane in casa la gente ha capito il valore del lavoro dell'artigiano e della qualità degli ingredienti. E capirà la mia nuova cucina più pura e parca. Quello che ho tolto dal menu andrà a beneficio del pianeta».