Economia
May 21 2014
La concertazione è morta. Abbasso la concertazione. Il dialogo tra le parti sociali è stato storicamente un elemento che ha caratterizzato l’Italia. Confindustria e sindacati hanno sempre avuto voce in capitolo per decidere le regole del gioco con il governo che accettava troppo spesso in maniera remissiva gli accordi. Il ruolo dei sindacati è stato dunque per molti anni al centro della vita economica del Paese e gli interessi particolari hanno portato spesso a fallimenti. Fallimenti pagati a caro prezzo dai contribuenti, imprese e semplici famiglie, che vivono in uno dei paesi a più alta tassazione nel mondo.
D’altronde un sindacato come la Cgil, il primo in Italia per numero di iscritti, ha influenzato tutti gli accordi nati solitamente dopo le maratone notturne tra le parti sociali cercando di portare il massimo risultato per i propri iscritti: i pensionati. Si ricorda infatti che il 52 per cento dei tesserati del sindacato della sinistra è composto da pensionati e non rappresenta i giovani e i disoccupati. Quindi è logico che tale confederazione cerchi di sfavorire determinate categorie a favore dei propri interessi.
La stessa Confindustria non rappresenta tutto il panorama del mondo produttivo e dei servizi. Il mondo delle partite Iva è rimasto spesso senza rappresentanza e solo pochi partiti le hanno tenute in considerazione e non trattate come possibili evasori.
Quando il governo Renzi parla del tempo scaduto per la concertazione tuttavia non è troppo credibile. Analizzando le misure adottate per il lavoro, per esempio, continua a esistere una forte flessibilità in entrata dal mercato (si ricorda che i giovani sono estranei ai grandi sindacati), mentre il mercato del lavoro rimane estremamente rigido in uscita, senza favorire la dinamicità necessaria.
Non si capisce perché un professore, magari iscritto a uno dei grandi sindacati, che ha poca voglia di lavorare non possa essere licenziato da un dirigente scolastico, a sua volta responsabile dei risultati della scuola. Si comprende che la concertazione è morta negli slogan del governo, ma di fatto lo schema adottato dalle leggi approvate continua a ricalcare una struttura della società cara ai sindacati. La concertazione è stata protagonista nell’ultimo trentennio, ma ricalca un’Italia dove il governo debole non ha mai avuto la capacità o la possibilità di incidere sui sindacati.
Non è un caso che gli accordi di Pomigliano della Fiat, che prevedevano una contrattazione di secondo livello e un rapporto sempre più stretto tra lavoratore e azienda, sono stati combattuti duramente dalla Fiom che aveva paura di perdere capacità di influenzare le scelte. Una battaglia che ha visto il segretario della Fiom Maurizio Landini in prima fila, proprio quel Landini che sembra ora essere il punto di riferimento del giovane primo ministro.
Il tempo della concertazione è finito non tanto perché Renzi lo annuncia a parole, ma perché gli accordi che sono stati raggiunti hanno reso l’Italia un Paese "fuori mercato". La competitività è andata scemando e le nostre imprese fanno sempre più fatica a dovere sottostare a regole decise più per favorire il dialogo tra le parti sociali che per raggiungere i risultati.
La rigidità della concertazione provoca un costo in crescita del lavoro, mentre gli altri paesi del Mediterraneo, Spagna e Portogallo per esempio, lo hanno ridotto (vedi grafico). La concertazione non permette l’agilità necessaria per potere competere in un’economia globale e serve solo a mantenere delle rigidità. L’Italia è così uno dei paesi con la più forte crisi economica all’interno dell’Europa, dato che il prodotto interno lordo ha registrato una caduta di oltre il 4 per cento nel biennio 2012-2013; tuttavia il dato preoccupante è quello che l’uscita dalla crisi è troppo lenta. La concertazione è diventata una bellissima scusa per bloccare il Paese. Una bellissima scusa solo per quelle categorie come i sindacati che nel tempo hanno visto il loro potere crescere, ma non certo per i cittadini, che si ritrovano strangolati da un’economia asfittica
di Andrea Giuricin, senior fellow dell’Istituto Bruno Leoni.