I concorsi mostrano i mali della scuola
La scuola italiana ha molti mali. Alcuni sono di stagione, come quelli derivanti dalla pandemia che ha tenuto le aule italiane vuote più che in ogni altra nazione. Altri problemi, più profondi, scaturiscono dalla visione della scuola che da almeno trent’anni guida ogni riforma ed è quella per cui la scuola debba tenere, meglio se a costo zero, il passo della società, del mercato, del digitale. Debba correre, insomma, per iniziare a parlare la lingua dei ragazzi, dimenticando che invece dovrebbe essere il contrario, con la scuola palestra e vetrina di parole, di letture, di saperi, di bellezza.
E così ogni riforma si fonda sempre sul fatto che la scuola vada svecchiata attraverso i metodi di insegnamento rinnovati, la fatica alleggerita, le pagine stralciate, le slide, l’occhio strizzato al mondo dell’impresa. Come se la scuola non avesse più bisogno di docenti preparati e appassionati, capaci di parlare bene e chiaramente, in grado di portare in aula in modo professionale quel «di più» che fa di un docente un maestro di quella disciplina, di quel che ha studiato e che sa trasmettere. Perché lo sa fare, perché ha imparato a farlo nel modo migliore possibile.
Questo orizzonte di un insegnamento concreto riemerge solo ogni tanto, quando si crede di poter mettere una pezza alla figura del docente in aula con qualche corso di aggiornamento obbligatorio, vale a dire altra burocrazia autoprodotta e autoreferenziale. Il sistema scolastico è artefice e vittima di molti dei suoi problemi. Uno dei più rilevanti è il reclutamento dei docenti che non ha mai regole certe e produce decine di migliaia di precari, per cui migliaia di spostamenti, di cambi in corsa, di assegnazioni provvisorie, di discontinuità didattica. Di rincorse, di malcontento.
Alcune situazioni sono di difficilissima soluzione, come ad esempio l’incongruenza del numero di docenti provenienti da determinate regioni rispetto al numero di posti disponibili proprio in loco. Per gestire questa tematica servirebbe una politica lungimirante che ripensi la scuola nell’arco dei vent’anni, non sempre di sei mesi in sei mesi. Una presa di posizione forte ad esempio sarebbe slegare l’abilitazione al mestiere dell’insegnante dal posto fisso. Infatti, dopo quasi vent’anni di sistema accademico con lauree “3+2”, mancano ancora le lauree abilitanti all’insegnamento, a eccezione della scuola primaria. Così, chi vuole insegnare, al termine di un percorso di studi di cinque anni, non ha un titolo abilitante tra le mani, così come non ha potuto curvare i suoi saperi all’insegnamento.
Non è una questione da poco, perché origina la sovrapposizione tra ciò che è legittimo (l’abilitazione a una professione) e ciò che si desidera (una cattedra stabile). È una storia di questi giorni, ma è anche una pagina già letta della stessa tragedia o farsa che sia. Molti docenti, che ogni giorno entrano in aula contribuendo al servizio pubblico con il loro lavoro, hanno affrontato prove a quiz in batteria, spesso con l’esito della bocciatura. Chi viene giudicato e fermato in questo caso? Non certo chi non è in grado di insegnare, così come non procede solo chi invece lo sa fare. Forse a essere bocciato è proprio un sistema di reclutamento e di abilitazione che per selezionare richiede cavilli nozionistici talvolta grotteschi, per lo più inutili.
Ciononostante, mentre potrebbe essere accettabile uno sbarramento anche nozionistico se si concorre per un determinato numero di posti di lavoro a tempo indeterminato, è ben diverso essere fermati da una prova a quiz in vista dell’abilitazione a una professione. Non ha senso che lo Stato italiano affidi il funzionamento della scuola a docenti che poi lo Stato stesso non abilita. Che senso ha valutare la capacità di insegnare (perché questo è ciò che risulta sui giornali e nella testa di chi vive questi percorsi) attraverso una batteria di domande a risposta multipla?
Non può essere questo il sistema di reclutamento di una scuola che funziona. Il tema dei concorsi è uno dei tanti specchi di una scuola che non va e che potrebbe essere rimessa in ordine, non tanto per chi in questi giorni sta vivendo con ansia personale le vicende del proprio destino, ma quantomeno per chi inizierà gli studi universitari tra qualche mese e che magari è motivato anche dall’obiettivo di insegnare, nonostante lo stipendio sia noto e la reputazione sociale pure. Lungimiranza, insomma, prima che ai docenti di domani, a furia di quiz e incertezze, venga meno la passione e la voglia di sapere e di sapere insegnare in una scuola che stanca e disillude, anziché essere proprio l’esatto contrario. Che è ciò che dovrebbe essere.
OUR NEWSLETTER