Dal Mondo
January 29 2024
Da Parigi giunge in queste ore la notizia che la cruciale trattativa per riportare a casa gli oltre 130 ostaggi israeliani ancora nella mani di Hamas a Gaza è «a buon punto». Il futuro del conflitto passa dunque per la capitale francese, dove il premier del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al Thani e il capo degli 007 egiziani Abbas Kamel si sono riuniti insieme al capo della Cia William Burns e al direttore del Mossad David Barnea, per gestire il capitolo dedicato alla tregua nella sanguinosa guerra in corso. Assenti le parti in causa, si media trovare un’intesa che conduca a due mesi di pausa nella guerra.
Perché Parigi? Da quando l’Emiro Tamim bin Hamad Al-Thani ha messo nel mirino l’Europa, la Francia è via via diventata sempre più una succursale politico-economica di Doha, insieme al Regno Unito. Un’esagerazione? Certo, ma la capitale europea oggi è davvero ambasciatrice degli interessi dell’Emirato nel continente, del cui soft-power si scriveranno forse pagine di storia, a dire il vero per ora solo giudiziarie, come il Qatargate insegna.
Intanto, l’influenza di Doha si estende quasi in ogni ambito, con gli investimenti a macchia d’olio del suo fondo sovrano che ormai hanno superato i 25 miliardi di euro, e che spaziano dall’industria pesante (vedi le quote nel colosso del settore aerospaziale e delle difesa Airbus) allo sport (su tutti, la proprietà del Paris Saint Germain), intercettando e riorientando la stessa politica nazionale in base ai desiderata dell’Emiro.
Se la trattativa israelo-palestinese andrà a buon fine, Doha potrà condividere il risultato di un passo in avanti significativo nella road map per uscire dallo stallo diplomatico insieme con il presidente francese Emmanuel Macron, che per parte sua potrà finalmente vedersi riconosciuto il merito di aver battuto un colpo nella crisi più grave del Medio Oriente dalle Primavere arabe e dall’arrivo dello Stato Islamico in avanti. Eppure, qualcosa non convince appieno di questo, sia pur necessario, approccio diplomatico.
Premessa: la vetrina di Parigi non è solo apparenza. Certamente il presidente Macron, in debito di consensi e in cerca di voti in vista delle elezioni europee, ha un disperato bisogno di visibilità e di ritrovare il prestigio perduto da tempo della Francia nelle relazioni internazionali, specialmente dal fiasco in Nord Africa, dove non si trovano più né soldati né bandiere francesi a ricordare quanto Parigi contasse negli equilibri geopolitici mediterranei.
E per tale ragione ha opportunisticamente proseguito lungo la linea che già fu di Sarkozy nell’apparecchiare per il danaroso Qatar un buffet di partecipazioni societarie nei gioielli del capitalismo francese a prezzo di saldo, in cerca di un rilancio politico anche personale, per accreditarsi quale uomo di pace in vista di futuri incarichi dopo l’uscita di scena dall’Eliseo. Macron infatti, rieletto nell’aprile 2022, non ha però più la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale e le mozioni di sfiducia contro il suo partito liberale Renaissance indicano che è in corso un’accelerazione del declino del suo progetto politico.
Ma più di questo, a impedire che simili trattative si svolgano altrove, tipo al Palazzo di Vetro di New York (dove sarebbe naturale che si svolgessero questo genere di discussioni), sono proprio l’incapacità e la palese faziosità delle stesse Nazioni Unite: del resto, lo scandalo dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, Unrwa, accusata di un possibile coinvolgimento di dipendenti nell’attacco di Hamas in territorio israeliano del 7 ottobre, ne è la dimostrazione più evidente e preoccupante.
Non è bastato lo stop ai finanziamenti dell’Unrwa da parte di Canada, Australia, Italia, Regno Unito, Finlandia, Paesi Bassi, Germania, Giappone e Austria, (ma non di Parigi, per il momento) a placare l’ira di Gerusalemme e a gettare discredito sull’istituzione internazionale. Però è stato sufficiente a comprendere che, per trattare la tregua in Medio Oriente, servono interventi diretti e non mediati da enti terzi. Ed ecco il ruolo centrare del Qatar, che in questo caso può far valere piuttosto che uno soft un vero hard power.
In cosa consiste esattamente l’hard power qatariota è presto detto. Chi finanzia Hamas? Chi protegge i suoi leader? Chi gioca di sponda con l’Iran e chi finanzia il mercato delle armi del Vicino Oriente? Doha, sempre e soltanto Doha. Dunque, si può persino affermare che la negoziazione per la liberazione degli ostaggi sia non soltanto mediata, ma direttamente decisa dall’Emirato in base alla sua spregiudicata agenda politica estera. Già, perché mentre il Qatar ospita il maggior contingente militare degli Stati Uniti della regione, mentre si fa intermediario del processo di pacificazione afghano e adesso anche di quello palestinese, l’Emirato intanto spia le aziende di difesa occidentali, Italia compresa, grazie alle sue penetrazioni di capitali, e arma la mano dei terroristi giocando di sponda con il regime degli ayatollah iraniani.
Soltanto in Italia, per dire, il Qatar ha investito una dozzina di miliardi nel settore della moda (vedi il marchio Valentino), risollevando le sorti degli alberghi di lusso tra Roma, Venezia, Milano e la Costa Smeralda, ed è il principale finanziatore del futuristico quartiere di Porta Nuova a Milano. Mentre in Germania ha le mani nella Deutsche Bank e in Volkswagen, nel Regno Unito controlla i grandi magazzini Harrods e ha una partecipazione del 20% nell’aeroporto di Heathrow, e via discorrendo.
Tutto questo ha un peso specifico e una contropartita evidente in termini d’influenza politica. Il sistema dell’Emiro dunque funziona, ma – ed ecco il vero punto – è un potere unidirezionale, che va cioè a esclusivo vantaggio del piccolo e potente Emirato.
Questo gli Stati Uniti lo sanno bene, ma essendo una democrazia, come gli Stati europei anzitutto devono guardare al proprio elettorato prima di poter condannare o alienarsi i favori di un Paese ricco e influente come il Qatar.
«Doha è il secondo produttore al mondo di gas liquido e un importante acquirente di beni, servizi e armi. Quante tangenti, oltre alle mance a quei quattro cialtroni di Bruxelles, sono passate in Europa in questi anni?» denunciava il giornalista indipendente Alberto Negri soltanto un anno fa. Risposta: tutte quelle necessarie a far sì che i Paesi occidentali, America compresa, chiudano un occhio sugli affari sporchi di Doha in Medio Oriente, visto che ormai l’Emirato ha intessuto una fitta rete d’affari cui nessuno vuole (o può) più rinunciare.
La stessa Amministrazione Biden, in piena campagna per le presidenziali, deve guardarsi bene dallo sposare appieno la posizione del governo israeliano – che predica guerra a oltranza fino alla sconfitta di Hamas – perché il suo stesso corpo elettorale non giudica positivo né un intervento americano a fianco di Israele o nel Mar Rosso, né vede di buon occhio le violenze in corso a Gaza, nonostante le barbarie perpetrate da Hamas, di cui teme nuove azioni terroristiche sul suolo americano.
Ecco perché il presidente Biden ha fatto sapere che la Casa Bianca valutando di rallentare o sospendere la fornitura di armi allo Stato ebraico: come già per l’Ucraina, Washington preme per il buon esito dei negoziati e non vede l’ora di sfilarsi da entrambi i teatri di guerra, terreno politicamente scivoloso per l’Amministrazione in carica e potenzialmente foriero di nuovi scontri.
Secondo indiscrezioni del New York Times, un'intesa potrebbe essere siglata nelle prossime due settimane sulla base di una bozza scritta che unirebbe le proposte di Israele a quelle di Hamas avanzate negli ultimi giorni: in estrema sintesi, pausa di due mesi nel conflitto in cambio del rilascio di tutti gli ostaggi. Ma di mezzo c’è il futuro di Gaza, e di chi la controllerà. Il Qatar ovviamente parteggia per la nascita di uno Stato palestinese attraverso cui continuare a pungolare Israele, in questo momento tallone d’Achille dell’Occidente, e a orientare la politica regionale in funzione del vero scopo dietro al soft power dell’Emiro: espandere l’Islam politico in Europa per conquistare attraverso il denaro ciò che non può essere conquistato militarmente.