Economia
May 08 2013
C’è la diaspora eclatante di Sergio Marchionne e quella silenziosa di chi non paga le quote associative. Nell’un caso e nell’altro, la Confindustria perde le penne. E Giorgio Squinzi, dopo appena un anno di presidenza, sta vivendo momenti difficili. La decisione annunciata dalla Fiat nell’ottobre 2011 non era un gesto isolato. In quello stesso anno, i pagamenti sono diminuiti quasi del 10 per cento. Il bilancio del 2012 dovrebbe essere ancora peggiore. Solo le aziende pubbliche con i loro 40 milioni di euro possono far quadrare i conti. Anche se proprio l’ingombrante presenza dei colossi di Stato (Eni, Enel, Finmeccanica, Poste) è una delle ragioni per lasciare Confindustria.
L’ultima a uscire è stata la Finco che rappresenta produttori di materiali per le costruzioni. A lei s’è aggiunta l’Aniem (piccole imprese edili). Intanto, nascono associazioni parallele come Agire, animata da Alessandro Riello che si è dimesso più di un anno fa. Aderiscono imprenditori del Nord-Est di ogni tendenza: da Massimo Carraro (Morellato) che fa politica con il Pd al trevigiano Nicola Tognana vicino al centrodestra. S’aggiungono ai tanti che hanno preso cappello: il marchigiano Enrico Bracalente (Nero Giardini), il napoletano Gianni Punzo amico e socio di Luca di Montezemolo in Italo, Giorgio Jannone delle cartiere Pigna. «Il tempo è scaduto anche per Confindustria»: le parole di Guido Barilla, pronunciate il 16 aprile celebrando i cent’anni dell’azienda, sono state un’altra bruciante frustata. Barilla non esce, ma il suo sembra proprio un ultimatum.
L’apparato costa tanto, troppo: tra 500 e 550 milioni di cui 40 finiscono a Roma, nella struttura centrale. Squinzi ha promesso una riforma e ha creato una commissione affidandola a Carlo Pesenti. Ma s’è impantanata in polemiche e ripicche. Intanto, agli imprenditori che continuano a chiedere, la Banca d’Italia replica: perché voi in questi anni non avete investito abbastanza? Davvero, la Confindustria non ha più appeal nemmeno ai piani alti del sistema.