Economia
March 20 2014
Criticato dalla Cgil e anche dall'ala sinistra del partito Democratico, Giuliano Poletti sembra intenzionato ad andare avanti. Il ministro del lavoro, infatti, non ritirerà il prossimo decreto legge sui contratti di assunzione, che è in dirittura d'arrivo ma deve essere ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Una delle parti più contestate di questo provvedimento è la deregulation totale (o quasi) delle assunzioni a termine. In futuro, questi tipi di contratto potranno essere prorogati per ben 8 volte nell'arco tre anni, senza l'obbligo per l'impresa di specificarne la causale, cioè il motivo per cui il dipendente è stato reclutato in forma temporanea e non in maniera stabile (cioè a tempo indeterminato). Si tratta di un vincolo previsto oggi dalla legge, che scatta non appena la durata del rapporto di lavoro supera i 12 mesi. Secondo Poletti, però, l'obbligo di indicare la causale rappresenta un disincentivo alle nuove assunzioni e, dunque, va eliminato al più presto.
CONTRATTI A TERMINE: ECCO COSA CAMBIA
Per dimostrare la sua tesi, il ministro cita gli ultimi dati disponibili sulle assunzioni. Nel terzo trimestre del 2013, gli avviamenti di nuovi rapporti di lavoro sono stati circa 2,3 milioni. Nello stesso tempo, però, si sono registrate ben 3 milioni di cessazioni. Il che significa, secondo Poletti, che il mercato del lavoro italiano somiglia sempre più a “una porta girevole”. Piuttosto che prorogare nel tempo un contratto a termine, infatti, le imprese non lo rinnovano alla scadenza e preferiscono assumere un altro dipendente, con un nuovo inquadramento temporaneo. Per quale ragione? Per il ministro, la colpa è proprio dei vincoli previsti oggi dalla legge, che obbligano le aziende a specificare bene il motivo dell'assunzione temporanea e le espongono al rischio di una causa giudiziaria da parte del dipendente, qualora questi obblighi formali non siano stati rispettati alla lettera.
La deregulation di Poletti, però, si è già attirata una lunga sfilza di critiche, non soltanto dalla Cgil, ma anche da parte di alcuni “addetti ai lavori” . E' il caso di Tito Boeri, economista della Bocconi , che paventa il rischio di un aumento della precarietà del lavoro, visto che le imprese avranno in futuro carta bianca nel prorogare i contratti temporanei. Dello stesso parere è anche Guido Callegari, partner dello studio legale De Berti Jacchia Franchini Forlani che dice: “per le nuove assunzioni, questa liberalizzazione dei rapporti di lavoro a termine rischia di porre il contratto a tempo indeterminato in una posizione ancor più marginale di oggi”.
Inoltre, secondo Callegari, le norme appena messe in cantiere da Poletti hanno il difetto di trascurare del tutto certe forme di collaborazioni autonome, che non sono meno bisognose di tutela rispetto al lavoro subordinato e che sono oggi le tipologie contrattuali più utilizzate per le nuove professionalità richieste sul mercato o in settori produttivi emergenti come l'information technology e la consulenza.
Intanto, però, il ministro del lavoro sembra intenzionato a non fare marcia indietro e dice di voler procedere con un approccio realistico. In questa fase d'emergenza occupazionale, per Poletti è bene incentivare i contratti a termine, che sono i più utilizzati per l'accesso al lavoro. Del resto, le statistiche parlano chiaro: tra tutte le nuove assunzioni avvenute in Italia nel terzo trimestre 2013, circa il 68% sono a tempo determinato. Attualmente, i nostri connazionali con un contratto a termine (tenendo conto anche dell'apprendistato e delle assunzioni su somministrazione) sono poco meno di 2 milioni e corrispondono al 13-14% dell'intera forza-lavoro. Si tratta di una percentuale in linea con la media europea e con quella di altri paesi come la Francia (15%) o la Germania (14,7%).
Va ricordato, però, che tra i giovani con meno di 25 anni la quota di assunzioni precarie supera ampiamente il 50% e non diminuisce affatto al crescere del grado di istruzione del lavoratore. Anzi, tra i laureati con meno di 29 anni, la percentuale dei contratti a termine è pari a ben il 39% (45% tra chi ha studiato delle discipline umanistiche), contro il 34% dei diplomati e il 31% dei lavoratori con la licenza media.