Contro i femminicidi serve la detenzione
Con l’omicidio di Alessandra Matteuzzi salgono a 77 le donne uccise dall’inizio del 2022. Alessandra come tante altre vittime di femminicidio aveva denunciato il suo ex ma questo non è bastato per impedire che fosse uccisa. La denuncia non è riuscita a salvarla ed è stata massacrata a martellate sotto il portone di casa da chi forse avrebbe potuto essere fermato. Una morte che ha riaperto il dibattito sulla validità delle misure messe in campo contro il femminicidio, perché le donne anche se denunciano muoiono lo stesso. Su quest’ultimo caso è intervenuta anche la ministra Cartabia avviando un’indagine interna per capire se si tratti di un caso di malagiustizia ma il problema secondo la polizia ha radici più profonde.
«Il problema non è una mancata preparazione delle forze dell’ordine o un mancato loro intervento, come qualcuno vorrebbe far passare. Il problema sono le tante lacune ancora esistenti nell’impianto normativo» - commenta Fabio Conestà, segretario generale del Movimento Sindacale Autonomo di Polizia (Mosap).
Spesso le donne che denunciano vengono comunque uccise. Non ci sono misure sufficienti?
«Come dicevo prima, il codice rosso non ha sortito l’effetto sperato. Spesso il solo divieto di avvicinamento non è sufficiente e sono tanti i fatti di cronaca che lo dimostrano. Chi si rende responsabile di reati di violenza contro una donna, a maggior ragione se ripetuti nel tempo, non andrebbe semplicemente ammonito, ma ristretto. Il problema non è una mancata preparazione delle forze dell’ordine o un mancato loro intervento, come qualcuno vorrebbe far passare. Il problema sono le tante lacune ancora esistenti nell’impianto normativo e a tal proposito, lo scorso aprile, siamo stati promotori di un importante convegno sul tema a Viterbo, al quale hanno preso parte anche alte cariche istituzionali della Magistratura».
Cosa ne pensa dell’ultimo caso di Alessandra Matteuzzi?
«L’ultimo caso è la dimostrazione palese che alla denuncia dovrebbe seguire una misura detentiva. Un uomo accecato dalla rabbia e dalla gelosia, un uomo che vuole a tutti i costi riprendersi con violenza una donna, non ha nulla da perdere. La vittima in questo caso ha denunciato il suo assassino più volte. A questo è stato imposto solo un divieto di avvicinamento. L’esito lo abbiamo visto tutti».
Perché non si riesce a contrastare l’aumento dei femminicidi?
«Il femminicidio è purtroppo un fenomeno in costante crescita che ha alla base una falla culturale, secondo la quale la donna è concepita come parte “debole” di un sistema in cui l’uomo pensa di essere privilegiato. A questo dobbiamo aggiungere il fatto che nel nostro Paese i diritti delle donne e la loro tutela è spesso solamente oggetto di propaganda politica, ma nei fatti, non produce nulla di concreto. Si pensi, ad esempio, alle donne in maternità che perdono il lavoro o alle donne con figli piccoli che non riescono a trovarne. Quanto al femminicidio in sé, evidentemente dal punto di vista normativo non è stato fatto abbastanza: ripeto il codice rosso non ha sortito gli effetti sperati. Un divieto di avvicinamento non salva la donna dalla mano assassina e lo abbiamo visto con gli ultimi fatti di cronaca».
Come intervenite dopo che una donna ha denunciato violenza e maltrattamenti?
«In quasi tutte le questure e commissariati sono stati predisposti uffici antiviolenza, con funzionari, poliziotti e poliziotte altamente preparati per accogliere la denuncia della vittima sia a livello pratico operativo che a livello umano e psicologico. Quando una donna denuncia un episodio di violenza alle forze dell’ordine, la macchina delle indagini parte immediatamente, ma tutto il resto come misure detentive o provvedimenti, spettano alla Magistratura».
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